Giustizia: il caso di Giovanni Mercadante; il mio calvario da detenuto innocente
“La cosa che ti fa impazzire è l’impotenza. Se due, tre delinquenti dicono che sei un mafioso, che sei creatura di Provenzano, come fai a difenderti? Sai che sei innocente, lo sai, ma come fai a provare che sei una persona perbene anche se è la tua vita a dimostrarlo, se non hai fatto niente?”. Lo afferma Giovanni Mercadante, ex deputato regionale in Sicilia di Forza Italia, ex primario di Radiologia all’Oncologico “Ascoli” di Palermo, assolto dalla corte d’Appello di Palermo dall’accusa di mafia, in una intervista al Giornale, nella quale ripercorre un calvario lungo quasi cinque anni, fatto di due anni e due mesi di carcere e quindi di arresti domiciliari. “Speravo - dice - che qualcuno dei giudici leggesse attentamente le carte e che avesse il coraggio di riconoscere la mia innocenza, di ribaltare la condanna di primo grado a dieci anni e otto mesi. Capivo però che non era facile. E invece è accaduto. Se c’è un giudice terzo ci si può difendere dalle false accuse”, “contro di me c’erano solo accuse de relato di tre pentiti e alcune intercettazioni in cui si parlava di me come persona disponibile. Quelli che parlavano erano un cugino di mia madre e un medico, mio ex collega di corso. Ma non mi hanno mai chiesto nulla, mai raccomandato nessuno. Come potevo sapere che loro avevano rapporti con la mafia?”. E ricorda: “È stata una morte ingloriosa, la mia. A luglio del 2006 ero deputato regionale e un medico stimato, dall’oggi al domani mi sono ritrovato in una cella, a leggere accuse che mi facevano rabbrividire”, “non c’era stato alcun preavviso. Mi hanno preso e portato all’Ucciardone. L’arresto è terribile, ti senti esterrefatto, come se ti cadesse un palazzo sulla testa. E lo sgomento aumenta man mano che leggi le accuse contro di te. La cosa più traumatica è quando ti buttano nel canile dell’Ucciardone. Ore e ore di attesa e poi le foto segnaletiche, le impronte digitali, essere costretto a denudarmi davanti agli agenti per dimostrare di non avere addosso armi... Umiliante, terribilmente umiliante”. E aggiunge: “Veramente tremendi erano gli spostamenti dal carcere di Vibo Valentia per partecipare alle udienze. I trasferimenti sul blindato, con le manette ai polsi, chiuso in un gabbiotto 60 per 60... una mortificazione continua, durava almeno dieci ore il viaggio in queste condizioni”. E conclude: “Non ho più la mia vita. Ero un medico ma ormai sono in pensione, facevo politica ma non intendo tornare a occuparmene, è troppo rischioso fare politica in Sicilia. Mi piacerebbe, quello sì, tornare a fare il medico. Sarebbe una bella rivincita per me e per la mia famiglia”.
Fonte: http://detenutoignoto.blogspot.com/2011/02/giustizia-il-caso-di-giovanni.html
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