Il terremoto delle Calabrie nel settembre del 1905
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La sproporzione fra l’entità del disastro e la meschinità dei soccorsi …
La Calabria è notoriamente una delle aree della penisola con un altissimo livello di sismicità, uno dei più alti d’Italia. Ricorrenti e disastrosi i terremoti nei secoli l’hanno sconvolta. Nel 1783 un grave sciame sismico che durò tre anni, poi il disastroso terremoto del 1905 e, soltanto tre anni dopo, l’apocalisse che devastò Reggio Calabria e Messina nel 1908. U terremuoto, lo chiamavano.
Il sisma in Abruzzo dell’aprile del 2009 l’ha ricordato a tutti gli italiani che il problema della sismicità è un problema generale per tutta la penisola ma, in Calabria, non dovremmo dimenticare quanti terremoti e con quale gravità essi scossero la Calabria che, sula carta della sismicità italiana, è tutta una macchia rossa e che, ancora oggi, molti edifici pubblici, scuole e ospedali, sono ad alta o medio alta vulnerabilità. Come all’Aquila anche in Calabria vi sono edifici pubblici segnalati come vulnerabili in un rapporto della protezione civile ma sui quali non si sono fatti gli interventi necessari. Non sono, cioè, idonei a resistere ad un evento sismico. Una strage di legalità che rischia di trasformarsi in strage di popoli.
La notte tra il 7 e l’8 settembre del 1905 una poderosa scossa di terremoto funestò la Calabria. I giornali dell’epoca diedero grande attenzione e mandarono inviati e fotografi per raccontare i disastri. “Il gravissimo terremoto in Calabria e in Sicilia” titolava Il Giornale d’Italia: “Scene angosciose, una notte di terrore, morti e feriti, paesi distrutti” come occhiello. L’Ora, corriere politico quotidiano della Sicilia, nel numero del 10 settembre del 1905 parla dei soccorsi e degli “Spaventevoli disastri”: “Al grido di dolore partito dalla felice Calabria, nessuna delle regioni italiane è rimasta sorda. Già a Milano, a Torino, a Napoli, a Palermo e in tutte le grandi e piccole città del Regno, sono stati votati dei sussidi, si organizzano dei comitati di soccorso, si escogitano tutti i mezzi per venire in aiuto alle provincie desolate dal terremoto”. Nella provincia di Catanzaro la desolante serie dei paesi distrutti o danneggiati: Girifalco, Olivadi, Borgia, Palermiti, S. Floro, S. Caterina sullo Ionio, Isca sullo Ionio, Tiriolo, Dinami, Ionadi, Monteleone, Parghelia, Piscopio, Pizzo, Maida, Polia, San Mango. A Catanzaro, anche l’ospedale riportò gravi lesioni. Un’orrenda catastrofe titolava a due giorni dal disastro La Rivista Vibonese, giornale d’interesse del circondario: “Alle 2 e minuti 27 del giorno 8 settembre una forte scossa di terremoto, a diverse riprese ed in forma ondulatoria e sussultoria, della durata di 40 secondi, destava dal sonno tutti gli abitanti, producendo gravi danni ai fabbricati della città, e facendo numerose vittime”. Era solo l’incipit di una cronaca funesta: “Appena riavuti dal grande panico prodotto dalla forte scossa ed usciti in mezzo alla via, abbiamo constatato – scriveva in prima pagina la redazione – che i danni superavano ogni nostra previsione. La luce elettrica completamente spenta, l’aria annebbiata da densi nuvoli di polvere uscente dalle finestre e dalle larghe fenditure prodottesi nei muri, una folla di gente gridante in cerca dei propri cari dispersi nel buio della notte, qualche lume qua e là di luce fiochissima, gridi di pianto e di dolore, una disperazione delle più terribili. Si può dire – aggiungeva il cronista – che in pochi istanti tutti i cittadini furono nelle vie e nelle piazze, e non rimanessero dentro le case che i disgraziati colpiti dalle macerie nelle quali trovarono la morte o atroci dolori”.
Il 16 settembre La Nazione dà l’allarme per le nuove scosse in Calabria: “I danni per le scosse di ieri, distruzione dei fabbricati, paesi danneggiati, feriti. Nei dintorni di Catanzaro, a Serra Stretta, altre due vittime dissepolte, altre sono tutt’ora sotto le macerie”. E ancora: “Nel comune di Morano Marchesato che ha 800 abitanti vi furono morti e moltissimi feriti. A Parghelia gli ultimi cadaveri vengono estratti dalle macerie”. Il 20 settembre il Corriere della Sera denuncia: “Manca l’organizzazione dei soccorsi nei paesi devastati dal terremoto”. Un colpo di grazia (…) che metteva in evidenza “miseria, inerzia e lagni” di una terra devastata.
I circondari di Monteleone e Nicastro furono le aree più colpite dal sisma il cui effetto distruttivo si estese a due fasce delle provincie di Cosenza e di Reggio Calabria. Furono “distrutti o gravemente danneggiati” 326 comuni e un totale di 753 centri abitati, 135 in provincia di Catanzaro, 107 in quella di Cosenza e 84 in quella di Reggio Calabria. Più di ottomila le case crollate. Quasi completamente distrutti furono Zammarò (70 morti), Parghelia (62), Piscopio (60), Stefanaconi (65), San Leo di Briatico (24), Aiello (23), Martirano (16). Sei morti anche nel rione Forgiari di Monteleone (oggi Vibo Valentia). Sono solo alcuni dei dati rinvenibili nei documenti dell’inchiesta parlamentare “sulle condizioni dei comuni e delle province meridionali e nella Sicilia” del 1908. Ma gravi danni e numerosi morti “ci furono in pressoché tutti i paesi e paesini dell’area colpita: Tropea, Pizzo, Mileto, Zungri, Cessaniti, Sant’Onofrio, Triparni, San Costantino. L’Illustrazione Italiana il 24 settembre 1905 pubblica il disperato racconto di una superstite che, da Mileto, scrive ad una sua parente romana: “Svegliati improvvisamente quasi da uno scorcio simultaneo di mille fulmini, balziamo dal letto o meglio ancora siamo gettati giù dal letto da scosse orribilmente poderose. I muri vacillano, il soffitto spaccato e aperto manda giù un nembo di calcinacci e tegole; la lampada che tenevamo accesa va in frantumi e allora si fa buio profondo, sinistro, orribile. Ma il terremoto non cessa … Siamo all’aperto: siamo in salvo. Mal coperti, inebetiti dal dolore, ci contiamo. Siamo tutti... Ci abbracciamo lungamente, poiché ci pare impossibile di essere ancora vivi, fra tanta desolazione, in mezzo alle grida angosciose dei feriti e di quelli che cercano fiocamente aiuto sotto le rovine (...)”.
Luigi Barzini, autorevole inviato per il Corriere della Sera, fu uno dei primi a giungere in Calabria e la notte dell’11 settembre scrive la sua viva testimonianza: “In Calabria si muore”. Una “mirabile lezione di grande giornalismo”. Non un racconto ordinato di quanto visto nel rapido giro della regione devastata e neppure una cronaca del tremendo cataclisma, avverte subito il giornalista: “È troppo vasto il quadro di orrore e ho qualche cosa di più urgente da dirvi. Nella emozione, nella concitazione di quest’ora, non posso che gettarvi un grido d’aiuto; più tardi saprete in dettaglio quanto avvenne di spaventoso, saprete le stragi che la terra a commesso, le infamie di questa terra che tutti gli uomini chiamano madre. Adesso sappiate ciò che avviene mentre telegrafo. Qui intorno si muore di fame e di sete: i soccorsi, per quanto alacremente portati, non bastano; manca il pane ai sani, la carne ai feriti, manca l’acqua, manca il ricovero ai morenti. Intorno ai paesi una lugubre folla dolente si accascia; vi sono silenziose ventimila persone che perdono tutto, che non hanno neppure recipienti per andare alle fonti per attingervi; sono silenziose moltitudini che non possono staccarsi dalle rovine delle loro case, dovei i cari morirono e che, stordite, aspettano senza forza quegli aiuti che non arrivano mai. In alcuni luoghi, come Monteleone, poche case crollano; ma negli abitanti v’è ora il terrore della casa. Essa è il nemico. ...”. Già, perché, allora come ora, non è mai il terremoto che ti uccide ma la casa che ti crolla in testa. Ed è proprio per questo che, conoscendo la storia sismica del nostro paese che ci lascia ben prevedere dove avverranno altri terremoti, non dovremmo permettere che si continui a costruire con metodi “poco rigorosi” da un punto di vista antisismico. Perché si consente ancora, con infinite proroghe, di costruire con fatiscenti? Come sappiamo, nel 2008 è stato previsto l’obbligo di utilizzare il calcestruzzo certificato per gli edifici di “interesse strategico”, mentre per le costruzioni private, grazie alle proroghe concesse sotto le pressioni di costruttori e ingegneri, dai governi di destra e di sinistra che si sono succeduti, se ne può ancora fare a meno.
Oggi la protezione civile ha imparato a gestire le emergenze e i soccorsi ma allora, 105 anni or sono da quel tragico evento, ogni ora che passava era “una voce che si spegne sotto le macerie”. Altro che la Calabria come L’Aquila. Magari. Nello “spettacolo di miseria” dipinto dal Barzini nel suo articolo la situazione è drammatica: “La popolazione si accampa negli orti, nelle piazze, in tende improvvisate con coperte … Continuando a discendere a una svolta si scorge improvvisamente un accatastamento informe di travi di muri, una confusione di ruderi, ai quali il gran golfo di Sant’Eufemia azzurro pone un meraviglioso sfondo ridente. È Triparni distrutto. Ogni casa è crollata ...”.
Briatico era rimasto soltanto danneggiato ma le tante piccole frazioni sparse per le campagne del circondario furono completamente distrutte. Così fu per San Leo, Conidoni, Cessaniti e Zungri di cui non rimasero che i ruderi “sotto cui la gente sepolta implora inutilmente aiuto”. “Il ritardo dei soccorsi che qui appare ingiustificabile, aumenta il numero di vittime”. Anche Antonino Anile, poeta, scrittore e patriota originario di Pizzo, interviene con una importante testimonianza. E col titolo “La franca e fervida parola di un calabrese” viene pubblicata da il Giornale d’Italia: “Ogni ora che passa – scriveva Anile – è una voce che si spegne sotto le macerie. Al grido Salviamo le Calabrie tutta la nazione, in un magnifico slancio di carità, si prepara a lenire la sventura immane di questi paesi, i cui nomi per la prima volta risuonano all’orecchio degli italiani e che i giornali non usi a parlarne, deformano in mille modi. È uno spettacolo che conforta e solleva a chi, come me, nacque in quei luoghi, e tutto quanto ha di caro sente ancora legato a quelle pietre crollate, non può sottrarsi ad un senso di commozione. Questi spettacoli cementano l’unità nazionale più di qualunque opera di governo”. La descrizione è lunga ma termina con “L’augurio che le promesse già fatte dal ministro delle finanze, mentre ancora dura l’impressione di terrore per lo immane disastro, siano mantenute e gli sgravi di fondiaria, almeno per i danneggiati, si compiano veramente ...”.
Furono inviati reporter e giornalisti da quasi tutti i giornali d’Italia. Il quotidiano torinese La Stampa inviò Olindo Malagodi, una penna importante: “Dovunque sono stato, per tutti i luoghi della devastazione, uno stesso spettacolo si offriva: la sproporzione fra l’entità del disastro e la meschinità dei soccorsi … e vedevamo, con l’animo gonfio di angoscia, fronti sempre più rabbuiate e sguardi sempre più sconfortati, una disperazione sempre più cupa e sconsolata, una delusione che pareva un rimprovero. Ci son voluti nove giorni per assicurare una ragionevole distribuzione di pane ...”.
Anche se la protezione civile, in tanti anni di sismi e di emergenze, ha imparato bene a gestire aiuti e soccorsi, i problemi della ricostruzione non sono finiti e il sisma del 6 aprile del 2009, che alle 3 e 32 del mattino sconvolse l’Abruzzo, ancora fa soffrire gli aquilani che, come i calabresi, si sentono abbandonati.
Oggi, a 105 anni da quel disastro ricordiamo L’Aquila che, proprio come la Calabria, ha sofferto gli stessi problemi. Anche ora, come più di un secolo fa, “il grande cuore d’Italia” si esprime in mille forme. Furono creati comitati pro Calabria ovunque proprio come oggi si moltiplicano i gruppi di solidarietà su internet ma, in verità, il capitolo dei soccorsi ai terremotati dell’8 settembre 1905 è una delle pagine buie del nuovo giovane Stato unitario, verso cui molte speranze erano state riposte dalle popolazioni meridionali.
A differenza del terremoto aquilano però, per quello calabrese regnarono, nell’operato del governo nazionale guidato dall’on. Fortis, l’impreparazione assoluta, un’inefficienza vergognosa, lentezza, confusione. E anche a livello locale, quella catastrofe mise inesorabilmente in evidenza le miserie di una classe dirigente costituita dalla nobiltà terriera parassitaria. “I soccorsi – scriveva Luigi Iaricci inviato del Roma – arrivarono lenti, inadeguati, mentre la situazione era spaventosamente tragica … il ministro Ferraris accorse prontamente sui luoghi del disastro; però malgrado i clamorosi colpi di gran cassa, nessun pronto sollievo ei seppe arrecare ai colpiti della sventura, essendosi limitato ad osservare le rovine, ed a farsi acclamare da un codazzo di autorità e impiegati ...”. Un atto di accusa contro il governo romano e le autorità in genere che la stampa dell’epoca mise in risalto in maniera dura unanime. Tutti gli inviati manifestavano un’angoscia visibile nelle loro corrispondenze: per le vite umane che perivano sotto le macerie e che potevano essere salvate con soccorsi più efficienti, più pronti. “In Calabria – scrive l’Illustrazione Italiana del 24 settembre 1905 – quelli che non sono rimasti sotto le macerie, cominciano a morire di fame o di freddo. L’onorevole Fortis fa smentire dalle agenzie ufficiose quel che Luigi Barzini telegrafa al Corriere della Sera e quello che Olindo Malagodi scrive alla Tribuna sulla tardigrada distribuzione dei soccorsi. Ma noi in questo siamo un poco calabresi, e nel governo e nelle promesse e nelle smentite officiose non crediamo più per un’esperienza molte volte centenaria. Il governo smentisce genericamente, i giornalisti affermano fatti precisi: la scelta è facile ...”. Ed anche sull’inettitudine della classe dirigente calabrese la testata Cronaca di Calabria, il 5 ottobre del 1905 così scriveva: “... che le classi cosiddette dirigenti di questa sventurata regione pensino a trarre dalla comune sventura consiglio e spinta ad interessarsi un po’ della collettività, cessando da quello stato di egoismo, pel quale ciascuno guarda le cose solo dal suo angolo visuale”. La Domenica del Corriere che veniva data in omaggio ai lettori del Corriere della Sera pubblica in prima pagina l’illustrazione di una manifestazione (disegno di A. Beltrame), un processione di affamati che, al suono di tamburi, chiedeva “pane e riparo”.
Dovremmo tenere in maggiore considerazione questi moniti che ci vengono dal recente passato, soprattutto se si tiene conto della vulnerabilità sismica del patrimonio edilizio calabrese e italiano in generale. La prima norma antisismica risale al 1974 ma è stata ampiamente disattesa soprattutto in Calabria, né sono stati fatti investimenti per la messa insicurezza dei fabbricati, quelli pubblici in primis, costruiti prima di quella data.
I decreti attuativi della normativa antisismica sono del 1981 e del 1988 e, in Calabria, la relazione geologica è stata un optional per molti anni e la facevano, fino al 1991, gli stessi ingegneri, o architetti responsabili della progettazione.
I fabbricati più a rischio sono sicuramente gli edifici costruiti tra gli anni ’50 e ’60 ma – in questo quadro d’illegalità diffusa - non bisogna dimenticare che i due terzi delle abitazioni sorte negli ultimi trentacinque anni non sono a norma.
Nel 2001 un testo unico sull’edilizia ha disposto l’emanazione di nuove norme tecniche per le costruzioni in zone sismiche; per le specifiche però si dovette attendere sino al 2005, dopo che il terremoto di San Giuliano di Puglia, neppure di magnitudo troppo elevata, aveva causato il crollo di una scuola, sotto le cui macerie sono morti 27 bambini e una maestra.
Ma, col plauso di lobbies potenti di ingegneri e costruttori, le nuove norme tecniche non sono tuttora applicate, a causa di due proroghe e gli edifici pubblici vulnerabili non sono stati ancora adeguati a resistere alle scosse. Si tratta di scuole, ospedali, prefetture.
La Calabria è una delle regioni che, secondo un rapporto della protezione civile datato 1999, ha un elevato numero di edifici pubblici ad alta o medio alta vulnerabilità sismica che andrebbero adeguati o rottamati e ricostruiti. Lo sappiamo dal 99 e non si è ancora fatto niente. Però, in compenso, abbiamo l’ambizione di opere faraoniche e pensiamo al ponte sullo stretto come panacea per i nostri mali.
E la partitocrazia, la politica dei partiti, sembra essere estranea a questi problemi; l’incapacità di risolvere le emergenze si confonde con la capacità di causarle e, al massimo, l’ambizione è, da un lato o dall’altro, la nomina di uno dei loro come commissario ad un’emergenza che si crea.
Giuseppe Candido e Filippo Curtosi