La domanda a cui Curcio non risponde

Dalla Rassegna stampa

Sono molte le domande che la vicenda del ferimento del dirigente dell’Ansaldo Roberto Adinolfi porta con sé. La prima: si poteva prevedere e prevenire questo drammatico episodio? E poi: a quali risultati hanno portato dieci anni di indagini sulla Federazione Anarchica Informale? Cosa si sta facendo per proteggere coloro che rischiano di essere i prossimi obiettivi?

Che cosa vogliono davvero questi anarchici? E che cosa può fare la società per far tacere le armi? E molti altri quesiti si potrebbero aggiungere. Mi ha un po’ sorpreso che, in un contesto così ricco di interrogativi, «la Repubblica» abbia considerato importante pubblicare una intervista a Renato Curcio, che fu tra i fondatori delle Br, considerandolo, evidentemente, un osservatore autorevole della vicenda di Genova. Francamente l’intervista non aggiunge nulla alla comprensione di quel fatto, né ci aiuta a capire come si torna indietro da un percorso di violenza, cosa che davvero i protagonisti di allora potrebbero aiutarci a comprendere. Sono tantissimi, infatti, coloro che, da sinistra e da destra, parteciparono alla lotta armata, per capire poi, con lunghi e faticosi cammini (ai quali non è stato affatto estraneo un contributo della società) quanto fosse stata orrenda e sbagliata quella stagione.

Da quanto emerge dall’intervista, Curcio non sembra essere tra questi, dal momento che alla domanda cruciale: «Lei condanna questa violenza?» evita accuratamente di rispondere. Con l’effetto di ferire noi che negli anni della lotta armata abbiamo perduto persone che amavamo, e di creare nel lettore l’idea che una simile ambiguità sia di tutti coloro che furono protagonisti della stagione del terrorismo; cosa assolutamente non vera, che mortifica il loro sforzo di cambiamento - e quello di coloro che l’hanno sostenuto con tanto impegno - e impedisce di vedere che uscire dalla violenza è possibile, non solo per alcuni, ma per tanti.

L’Italia è un Paese meraviglioso, che in ogni angolo propone umanità, impegno, dedizione. Ma è anche un Paese al quale la violenza - subita e agita - non è purtroppo estranea. Ce lo dicono i tanti omicidi di donne, gli scontri negli stadi, il difendersi da soli con le armi, la presenza invasiva di cosche mafiose, il nostro tollerare, come nel caso delle carceri, situazioni che non possono che lasciare spazio a comportamenti violenti, l’aderire all’idea che i conflitti internazionali si risolvono con le armi e non con la diplomazia. Dobbiamo ancora lavorare per espellere la violenza dal nostro modo di essere e di pensare, nell’unica maniera possibile, ovvero non considerandola mai una risposta efficace ai problemi di ognuno di noi, del nostro Paese e del mondo.

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