Crescere nel rigore

Dalla Rassegna stampa

Il governo tedesco, la Bundesbank e persino la Commissione europea, hanno detto alla Grecia che l’euro e l’Ue possono anche fare a meno di lei.

Dichiarazioni sfidanti ma non molto credibili, pensate come pressioni perché i greci facciano giudizio. Un modo di fare che da tempo ha mostrato di non funzionare.

Non sarebbe meglio interagire diversamente con un momento difficilissimo per la democrazia greca? Perché non mettere l’accento sul fatto che l’Ue è pronta ad aiutare Atene, che per sostenerla non mancano fondi e misure, già decise e in programma, in accordo col fatto che sta crescendo in Europa, anche in Germania, la preoccupazionedella crescita?

E il minaccioso battibecco fra il nuovo presidente francese e i tedeschi sulla ratifica del «fiscal compact»? La discussione non sembra impostata coi toni più opportuni per preparare una trattativa che, tutti riconoscono, deve far giungere a concretezza anche un «patto per la crescita».

Non dobbiamo rassegnarci a un codice muscolare per la diplomazia europea. La gestione della lunga e costosa crisi economica ha gettato l’Europa nel disordine politico: il prestigio sovrannazionale della Commissione, la sua funzione di regista propositivo dell’integrazione e di garante delle regole del gioco, di calmiere delle tensioni intergovernative, si sono adombrati, nonostante gli eccezionali progressi che negli ultimi tre anni il lavoro di Bruxelles ha assicurato perché maturino nuovi schemi di governo per l’economia europea. Prevalgono gli umori mediatico-elettoralistici dei Paesi membri. Fiorisce un antigermanismo di maniera, in gran parte infondato, ma che trova alimento in frequenti atteggiamenti poco costruttivi di Berlino e Francoforte.

Oggi e domani il nostro premier sarà alle riunioni dell’Eurogruppo. È fra le persone più adatte a aiutare l’Europa a cambiare tono, a dare un’impressione diversa all’insieme dei suoi Stati membri, ai suoi cittadini, al resto del mondo e ai mercati finanziari. È urgente, il periodo a disposizione è breve: non va molto oltre i Consigli europei di fine giugno ed è tempestato di elezioni e complicazioni specifiche di diversi Paesi. Occorre uno sforzo di concertazione eccezionale. L’Italia può aiutare molto, anche per la speciale sovrapposizione che da noi si verifica fra l’interesse nazionale e quello comunitario. La nostra diplomazia è credibile ed è già al lavoro da qualche tempo.

Il punto di partenza deve essere la convinzione che rigore e crescita sono complementari. Basta che siano correttamente intesi: il rigore non deve tradursi in pretesa di aggiustamenti a velocità insostenibili e slegati da riforme strutturali; la crescita non si ottiene con stimoli generici alla domanda e nuove spese in disavanzo. Il testo attuale del «fiscal compact», per molti il simbolo del troppo rigore di marca germanica, non è necessariamente recessivo, è orientato al medio-lungo periodo e ricco di elementi di flessibilità. Qualche critico superficiale con occhiali ideologici dovrebbe almeno dargli un’occhiata. E smettere di considerare il vincolo di bilancio in Costituzione come una sorta di violenza teutonica di sapore quasi antidemocratico. Dovrebbe notare che il principio del vincolo, che è formulato in modo tutt’altro che rigido e stupido, è proprio quello di difendere democraticamente l’interesse dei giovani e delle generazioni che non hanno ancora diritto di voto ma sopporteranno per tanti anni l’onere di debiti fatti non per sostenere il ciclo ma per garantire consenso politico con deficit strutturali e improduttivi.

È però vero che l’equilibrio dei bilanci non basta. Oltre a una più celere unificazione dei mercati dei beni e servizi privati, la crescita chiede politiche comunitarie che entrino nella qualità dei bilanci pubblici, delle spese e delle imposte. Va accresciuta l’armonizzazione fiscale e accentrata la strategia di alcune spese pubbliche. Le quali sono a volte più utili e produttive di certe spese private, come quegli investimenti immobiliari che in questi anni si sono rivelati inutili, imprudenti e dannosi.

Per riqualificare la spesa pubblica europea, indirizzandone una parte in modo strategico e accentrato, possono servire progetti gestiti direttamente in sedi comunitarie e finanziati con emissione di eurobond. Ma sarebbe anche utile formulare i vincoli di bilancio in modo da favorire le spese che rientrano in programmi comunitari temporanei e ben definiti. I deficit tollerabili, nel medio termine, verrebbero calcolati al netto di tutte o parte delle spese che rientrano in tali programmi. È possibile farlo senza violare i principi fondanti del «fiscal compact». Mario Monti sostiene il trattamento speciale degli investimenti pubblici fin da prima che nascesse l’euro. Un’Europa che si occupi più direttamente della strategia dei servizi e degli investimenti pubblici apparirebbe anche con un’immagine migliore ai suoi cittadini.

Ad essere favorite dovrebbero essere spese «infrastrutturali». Ma, attenzione: non solo strade, gallerie e bande larghe. L’Europa deve adeguare le proprie infrastrutture sociali alle esigenze e alle fragilità che derivano da rivolgimenti tecnici e competitivi di scala globale. Come osserva Maurizio Ferrera in un’editoriale sul «Corriere» di sabato scorso, l’Europa deve occuparsi anche di asili, scuole, ospedali, spese e sussidi di Welfare. Se vogliamo davvero difendere, modernizzare e rendere coerente il modello economico europeo, non possiamo lasciare le spese sociali alle sole iniziative nazionali, incentivando una perversa concorrenza al ribasso e minacciandole continuamente con la disciplina dei bilanci.

Il governo italiano ha appena varato un primo piano per il Sud, con spiccate caratteristiche di coesione e inclusione sociale. Cerchiamo di disegnare insieme alcuni progetti comunitari su linee analoghe e complementari; facciamo in modo che le spese che vi rientrano, sotto un adeguato controllo comunitario, siano contabilizzate con favore nelle regole che disciplinano i bilanci pubblici.

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