[3] [4]Il presente saggio è stato scritto dal sociologo tedesco Ulrich Beck nel 2002 e tuttavia solo quest’anno tradotto e diffuso in Italia per i tipi della Laterza. Il primo pregio del libro è dovuto al fatto che esso descrive scenari e anticipa soluzioni adottate rispetto a problemi che di fatto si sono manifestati nel contesto mondiale più immediato, come avvenuto ad esempio per la crisi finanziaria internazionale decorsa dal luglio 2007.
Ma il libro ha tanti altri meriti; sopra tutti, quello di approntare una Nuova Teoria Critica in grado di dare una risposta “realistica” alle questioni del potere e della sovranità in principio del ventunesimo secolo. L’opera, senz’altro complessa, presenta diverse stratificazioni di analisi e può essere affrontata da diversi punti di osservazione critica, essendo il campo d’indagine rappresentato dallo spazio del potere globale, che, in quanto non assoluto, genera e sviluppa una dialettica di potere e quindi in generale un contropotere.
Ciò premesso, ritengo che si possa suddividere il saggio in tre sezioni. La prima, che introduce e definisce lo spazio (globale) di azione e gli attori che in esso agiscono da nuovi interpreti e protagonisti. La seconda, che descrive più in dettaglio le strategie dei nuovi attori: capitale, Stati tradizionali e movimenti della società civile. La terza, infine, che delinea le prospettive di un rinnovamento cosmopolitico della politica e l’avvento possibile di un’era della pace perpetua così come auspicata da Immanuel Kant circa tre secoli orsono, al principio dell’era moderna.
Nello spazio di questa recensione, mi limiterò dunque all’analisi e al commento del contenuto di questa prima sezione, al fine soltanto di introdurre al saggio, che merita senz’altro un’attenta e approfondita lettura.
Pur avendo subito precisato che lo spazio globale include oggi dei protagonisti senz’altro nuovi; tuttavia l’analisi critica del saggio parte dal bisogno, inteso in senso marxiano come liberazione, che costituisce pur sempre il fine primo e ultimo della politica. Nella società del tempo corrente, il maggiore bisogno è significato dal rischio globale dell’”annientamento” di ciascun individuo; la cui immagine simbolica più rappresentativa è figurata nell’esperienza dell’Olocausto nazista, in tal senso spesso identificato come “male assoluto”.
La costruzione dell’attuale spazio globale ha inizio con quella che l’Autore definisce prima modernità, allorquando le istanze del liberalismo, per il mezzo delle organizzazioni degli Stati-nazionali, diffondono la cultura del capitalismo su base industriale, orientata dallo sviluppo del rapporto dialettico “servo-padrone” in cui domina ancora la logica dello scambio e in particolare dell’offerta della forza-lavoro. In questa prima fase della modernità, il liberalismo esce vincitore dal confronto innanzitutto con il comunismo, il socialismo e le altre teorie politiche intermedie di critica del capitalismo. Tuttavia, già nel corso della prima metà del secolo scorso succede che muta il criterio-base di sviluppo del sistema medesimo e s’instaura quello che Luigi L. Pasinetti efficacemente ha definito il nuovo paradigma keynesiano. In breve: “La concezione stessa di un ‘paradigma di produzione’ è di gran lunga più complessa della concezione di un ‘paradigma di scambio’. Per cominciare, richiede un inquadramento dinamico e non statico. In secondo luogo, eluderebbe le proprie problematiche fondamentali se pretendesse di basarsi esclusivamente su un’analisi atomistica della società. L’attività produttiva, sebbene debba far assegnamento sull’iniziativa individuale, è anche un processo tipicamente sociale, e ciò in più di un senso. In terzo luogo, non può più fare astrazione, come normalmente accade nel caso dei modelli di scambio, da specificità storiche, poiché il tipo di istituzioni che danno forma a una società industriale, oltre ad essere molto più complesse, sono intrinsecamente soggette a mutamenti indotti dall’evoluzione degli eventi storici in misura molto maggiore di quella che ha caratterizzato l’era del commercio” (L. L. Pasinetti, Keynes e i Keynesiani di Cambridge, Laterza, p. 241).
Si giunge così all’epoca che l’Autore definisce post-moderna, pervasa da uno spazio non più nazionale ma inter-nazionale, favorito dalle sempre maggiori e nuove scoperte scientifiche e tecnologiche, teatro delle azioni dei moderni Stati-nazionali. Ben presto, è tuttavia questo stesso modello degli Stati-nazionali che si dimostra, ancor più nell’attualità, insufficiente laddove sempre più di sovente emergono le proprie inefficienze. Sorretto da un pensiero neo-liberale, che pure ha dato frutti positivi sulla strada dell’internazionalismo, ancora oggi purtroppo il “regime decide dell’esclusione e dell’inclusione nell’economia mondiale. Il suo potere si basa sulla potenziale messa al bando economica e morale di interi Stati e delle loro popolazioni … astenendosi puramente e semplicemente dall’investire”. Questo regime, corroborato dall’azione di alcuni Stati-nazionali, in primis gli Stati Uniti di G. W. Bush, si avvale della dottrina di autori, tra i quali mi piace ricordare F. Fukuyama. Il quale, solo rivedendo parzialmente il proprio giudizio originario (1989) sulla presunta “fine della storia”, richiamato qui a giusto proposito, ancora nel presente pone il modello di democrazia liberale al vertice dell’esperienza del cosiddetto “ultimo uomo”. Giudizio che invece è palesemente in contrasto con quello che, peraltro non da ultima, il 17 ottobre scorso, la cancelliera Merkel ha rilasciato alle agenzie di stampa internazionali, ovvero: “l’approccio multiculturale del ‘viviamo fianco a fianco e ne siamo felici’ è fallito, completamente fallito”. Eppure, il nostro Autore l’aveva già ampiamente predetto nel 2002, laddove evidenzia nel testo che l’ottica della post-modernità giustificando le differenze mantiene le diversità e quindi, potenzialmente, non risolve su base teorica, e quindi pratica, i conflitti che da tale impostazione di fatto derivano.
Nel tempo più immediatamente trascorso e più ancora nell’attualità, si perviene pertanto all’età globale che Beck identifica con l’espressione seconda modernità. In questa età, il nuovo spazio globale risulta di fatto annullato dal tempo (D. Harwey 1990; nel testo a pag. 94). Nel nuovo contesto, emerge essenzialmente una questione, che è quella del potere, in quanto “non è più vero che ogni potere è detenuto dallo Stato”. Inoltre, la questione del potere investe direttamente quella della sua legittimità, infatti “il meta-potere dell’economia mondiale è estensivo e diffuso, ma non intensivo e autorizzato”. In epoca di globalizzazione, “il potere è l’opposto della violenza” (H. Arendt 1970, nel testo a pag. 74) e “ogni potere genera un contropotere”. In sintesi: “La nascita delle società cosmopolitiche e l’apparizione dei loro nemici sono due aspetti dello stesso movimento”. Il rischio globale dell’”annientamento” di ogni singolo individuo, ad ogni latitudine e longitudine del pianeta, si manifesta concretamente sul piano sia militare che civile, al punto che “il regime dei diritti umani sfida il diritto internazionale e si rivolge direttamente alle singole persone al di là dei popoli e delle nazioni, postulando una società civile mondiale di individui, giuridicamente vincolante”. Sul piano giuridico, si fa strada il concetto che potremmo definire della “doppia patria” che consente ad ogni cittadino di vivere, oltre a quella originaria, “un’identità, una cultura e una statualità transnazionali”. In buona sostanza, vuol dire sia che non occorre che il pagano diventi cristiano sia che l’identità dell’appartenenza transnazionale s’impone e supera l’ottica delle diversità propria del multiculturalismo. Nasce così l’immagine dello Stato cosmopolitico, che “si fonda sul principio dell’indifferenza nazionale dello Stato. Analogamente a quanto accaduto in seguito alla pace di Vestfalia, che pose fine alle guerre civili di religione del XVI secolo mediante la separazione dello Stato dalla religione, si potrebbe rispondere – questa è la mia tesi – alle guerre (civili) mondiali del XX secolo con una separazione dello Stato dalla nazione. Così come è lo Stato a-religioso a rendere possibile la pratica di diverse religioni, lo Stato cosmopolitico dovrebbe garantire la consistenza delle identità nazionali grazie al principio della tolleranza costituzionale”.
E per finire, ancora due considerazioni, se vogliamo strettamente connesse. La prima, in relazione al fatto che non è il fenomeno in sé della globalizzazione a indurre, per così dire, una coscienza della globalizzazione. Succede, anzi nei fatti è successo che sia stato il conflitto del “(meta)potere”, in atto, a definire la globalità. Il meccanismo e soprattutto la portata dello scontro, o anche semplicemente l’ampiezza del confronto, tra potere e contropotere ha generato e genera infatti “una consapevolezza globale della globalità … cresce la convinzione che siano necessarie nuove istituzioni globali per affrontare i problemi legati alla distruzione dell’ambiente, al controllo degli armamenti, all’ordine finanziario, ai flussi migratori, alla povertà e alla giustizia, al rispetto dei diritti umani”. Inoltre, anche se appare pur sempre evidente, è chiaro che nulla più può essere dato per scontato, altro che fine della storia e l’ultimo uomo! La Nuova Teoria Critica dell’avvento dello Stato cosmopolitico necessita prima di tutto di un consenso e poi di istituzioni che siano globali in modo da indurre più facilmente già nel presente gli attuali Stati-nazionali ad accettare regole di potere transnazionali. Questo percorso, s’intende, va alimentato di continuo in vista di un futuro già più volte immaginato, ma che a partire da Immanuel Kant bisogna radicalmente pensare stavolta come possibile.
[5]Angelo Giubileo
Fonte: http://www.radicalisalerno.it/?p=115 [6]