
La prima volta che incontrai Jamie Dimon, nel grattacielo della JP Morgan su Park Avenue, mi strinse la mano e, prima di liberarla dalla presa serrata, disse: «Benvenuto a Wall Street: d’ora in poi, la tua vita non sarà facile».
La settimana scorsa, Dimon e la più grande banca negli Stati Uniti hanno scoperto sulla propria pelle quanto sia difficile vivere a Wall Street.
Da giovedì 10 maggio, quando J.P. Morgan ha sorpreso i mercati con l’ammissione di aver perso 2 miliardi di dollari in meno di due mesi comprando e vendendo dei complicatissimi derivati, la finanza globale è sotto choc.
Mentre le perdite - causate in parte da un trader soprannominato «la balena di Londra» - continuano ad aumentare e sono già a quota 3 miliardi, la domanda nei palazzoni di New York, nella City ed ad Hong Kong, è una sola: «Ma com’è possibile?».
Com’è possibile che il «re di Wall Street», il grande Jamie Dimon, si sia fatto un autogol così clamoroso? (Dimon, capirebbe la metafora perché, da buon nipote d’immigranti greci, giocava a calcio e non a baseball da ragazzino).
Com’è possibile che un disastro di questo genere possa essere capitato alla J.P. Morgan, la banca che aveva vinto la crisi, comprando rivali in difficoltà e superando antagonisti agguerriti come la Goldman Sachs e la Morgan Stanley?
E com’è possibile che a pochi anni da una crisi finanziaria senza pari, la banca che era l’epitome della «Nuova Wall Street», sempre più supermercato finanziario e sempre meno casinò, abbia potuto fare un errore così clamoroso?
La risposta di Dimon che, a differenza dei tanti «Dottor Sottile» del mondo delle imprese è uno molto brusco, è stata di dare la colpa a se stesso e alla banca. «E’ un errore grossolano e stupido», ha detto. «Ce la siamo andata a cercare. Siamo stati disattenti». E così via.
Tutto vero ma, purtroppo per Dimon e gli azionisti della J.P. Morgan, non basta. Una volta aperto, il vaso di Pandora delle paure del mercato e dei regolatori non si può chiudere facilmente.
Lo spiaggiamento della «balena di Londra» – Bruno Iksil, un trader francese che aveva fatto un sacco di soldi scommettendo su derivati – non farà fallire la J.P. Morgan. Con più di due triliardi di dollari sul bilancio, la banca sopravviverà anche se le perdite arrivano a 5 miliardi, come ormai temono i luogotenenti di Dimon.
Il vero danno causato dal cetaceo è alla reputazione di Wall Street e, forse, alla carriera di Jamie Dimon.
Questo non è un buon momento per mostrare al mondo le debolezze del sistema finanziario e la fragilità dei suoi membri.
La crisi europea sta diventando sempre più un problema per le banche e l’economia reale – basta solo vedere l’assalto agli sportelli nel Paese avito di Dimon, mentre in America la ripresa è lentissima e le banche non hanno fatto granché per accelerarla.
Con una campagna elettorale per le presidenziali di novembre in corso e delle scadenze importanti per riscrivere le regole del gioco finanziario, Wall Street è vulnerabilissima.
Le perdite del signor Iksil e dei suoi colleghi negli uffici londinesi di J.P. Morgan hanno confermato ed amplificato le paure recondite di politici e gente comune.
Wall Street non impara mai. Dopo aver fatto mea culpa per gli errori del 2007-2009, le banche e i loro leader ci avevano promesso che avrebbero cambiato strategie e stili di vita. Che la «Nuova Wall Street» sarebbe stata più attenta ad aiutare società e risparmiatori che a imbottire i propri utili e le tasche dei banchieri.
Questa folgorazione – magari non proprio sulla via di Damasco ma certamente sulla via di Washington – era il motivo addotto da banche e lobbisti per persuadere regolatori e politici ad andarci piano con le riforme del dopocrisi. Se non state attenti, avevano detto, rischiate di restringere il flusso vitale dell’economia: il denaro pompato dalle banche a consumatori e imprenditori.
Il tonfo della balena cambia tutto. Grazie al lavoro di reportage di un paio di media, tra cui il «Wall Street Journal», abbiamo scoperto molto prima dell’ammissione di Dimon, che Iksil & co. non avevano nulla a che vedere con aziende, consumatori o altri clienti di cui le banche si riempivano la bocca nei colloqui con i politici.
L’obiettivo del Chief Investment Office, il gruppo in cui lavora Iksil, era di prendere i soldi di J.P. Morgan e investirli per aumentare gli utili della banca. In teoria, il cio avrebbe dovuto semplicemente ridurre i rischi della banca con degli «hedges», le «siepi» finanziarie che proteggono da repentini cambiamenti dei mercati.
Ma, grazie all’indifferenza più totale all’interno di J.P. Morgan – Dimon era troppo preso ad attaccare le nuove regole del gioco e il presidente Obama, per prestare attenzione – la balena e i suoi amici si sono messi a prendere rischi inconsulti invece di ridurli.
Quando, in aprile, Dimon disse che gli scoop della stampa sul cio erano «una tempesta in una tazzina di tè», Iksil e suoi avevano già preso posizioni gigantesche nel mercato dei derivati – più di 100 miliardi di dollari secondo una delle mie fonti.
Sembra difficile credere che dei traders esperti e stagionati possano comprare 100 miliardi di roba complicata e pericolosa non per speculare, ma per ridurre i rischi di una banca.
La verità di questo pasticcio verrà fuori alla fine – ora che l’Fbi e altre agenzie federali hanno aperto indagini – ma ormai il latte è stato versato.
I banchieri con cui ho parlato questa settimana già si aspettano il peggio: provvedimenti ancora più severi da Washington per limitare attività rischiose con i soldi delle banche; un’altra serie di attacchi da politici e consumatori; e la sensazione un po’ nauseante che la crisi del 2007-2009 non era un fatto isolato ma una tessera in un mosaico degli orrori della finanza.
John Pierpont Morgan, il leggendario banchiere che precedette Dimon al timone di J.P. Morgan, una volta disse: «L’uomo ha sempre due ragioni per fare una cosa: una buona ed una vera». Per arpionare la balena del rischio una volta e per tutte, Dimon ed il resto di Wall Street dovranno rassicurare il mondo che l’epoca della distinzioni tra ragioni buone e ragioni vere è finita.
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