
05/04/11
Europa
Il 10 marzo scorso, con l'articolo di Rita Bernardini e Sergio D'Elia, Europa ha dato conto di una iniziativa giudiziaria, senza precedenti in Italia, a tutela della dignità umana delle persone ristrette nei Centri di identificazione ed espulsione (Cie). Il presidente del tribunale civile di Bari, Vito Savino, aveva accolto il ricorso per accertamento tecnico preventivo da noi proposto con la formula dell'azione popolare ordinando l'ingresso nel Cie di Bari di un perito per verificare «lo stato, la condizione, l'organizzazione del Centro» e se esso «sia in grado di assicurare ai trattenuti necessaria assistenza e pieno rispetto della loro dignità». Il 31 marzo sono iniziate le operazioni di verifica in esecuzione dell'ordinanza. Nel primo pomeriggio, è entrato nel Cie di Bari un piccolo gruppo di avvocati e periti guidato dal consulente tecnico del tribunale Francesco Campanale. Noi eravamo presenti con il nostro consulente Alfredo de Marco, presenti pure gli avvocati dello Stato, della Regione Puglia e del Comune di Bari, accompagnati dai rispettivi tecnici.
All'inizio delle operazioni, quando eravamo nel corridoio centrale dal quale si sviluppano i sette moduli di prigionia, i reclusi, avvertendo la presenza di visitatori, hanno iniziato a urlare battendo sulle porte blindate con pugni e calci, nel disperato tentativo di attrarre l'attenzione. Le forti grida e i colpi hanno spinto il consulente del tribunale a richiedere e ottenere l'immediato intervento dei funzionari di polizia preposti alla sorveglianza. Gli animi si sono placati solo quando sono state aperte le sezioni detentive e siamo entrati in ciascuno di questi gironi - uno per volta e previa chiusura del precedente lasciato alle nostre spalle - venendo accolti da un umanità dolente, animata da piccole storie e rivendicazioni personali e da tante invocazioni d'aiuto.
Un giovane cittadino tunisino ci ha mostrato le foto delle piccole figlie, dicendo di non poter avere notizie sul luogo dove oggi si trovano. Un altro tunisino ci ha mostrato una ferita di arma da fuoco alla gamba sinistra, sostenendo di averla riportata nel corso dell'insurrezione popolare e di essere fuggito in Italia, trovandosi ora ristretto in una struttura carceraria anziché accolto come profugo. Quattro giovani tunisini ci hanno riferito di essere minorenni. Tutti lamentano a gran voce l'ingiusta detenzione carceraria per il solo fatto di non avere un permesso di soggiorno, e la violazione dei diritti di difesa perché le loro istanze non sono rappresentate attraverso il libero contatto con gli avvocati.
Alcuni reclusi hanno dichiarato di essere trattenuti da oltre sei mesi, a causa della reiterazione di provvedimenti giudiziari di internamento e delle lungaggini burocratiche per la loro identificazione nei paesi di origine. Un detenuto che si è detto di cittadinanza indiana, nella struttura per motivi a lui incomprensibili, era in sciopero della fame.
Gli "ospiti" (così sono chiamati dall'apparato burocratico che amministra la struttura detentiva) sono internati nei rispettivi moduli, chiusi da porte blindate con apertura solo dall'esterno. Ogni modulo consiste di sette ambienti con letti metallici ancorati stabilmente al pavimento e con finestre protette da sbarre d'acciaio antievasione, senza alcun altro arredo o suppellettile (per evitare gesti di autolesionismo o di aggressione, è la giustificazione). I reclusi non hanno la disponibilità degli effetti personali perché i bagagli con i quali sono entrati risultano ammassati in un locale separato per loro inaccessibile, se non mediante accompagnamento dei sorveglianti.
I bagni e i punti doccia sono in condizioni igieniche pessime a livello impiantistico e funzionale e non garantiscono la privacy. La situazione igienico-sanitaria della struttura è aggravata dalla promiscuità forzata all'interno dello stesso ambiente di uomini di diversa etnia e cittadinanza.
All'esito di questo primo sopralluogo noi possiamo testimoniare della reclusione di fatto carceraria dei migranti senza permesso ristretti nel Cie di Bari sotto sorveglianza di corpi armati dello Stato, e della disperazione psicologica di questi esseri umani, i quali non comprendono le ragioni della loro detenzione pur non avendo commesso altro delitto che quello di esistere nello status di migranti privi di permesso. Tal è la fattispecie di reato contemplata nel nostro ordinamento giuridico.
Ci obietteranno, essendo noi giuristi, che è vigente una norma di legge che prevede la detenzione di questi uomini e che dunque quello che noi denunciamo rientra nella legalità. A tale obiezione rispondiamo senza esitazioni che esiste anzitutto l'etica pubblica, fondata su principi universali che precedono l'ordinamento statuale e che danno sostanza vitale alla civiltà giuridica di un paese democratico. Del resto, con le ovvie differenze, i campi di concentramento di uomini e donne nel III Reich e nell'Italia fascista furono previsti da leggi formalmente perfette, approvate dagli organi costituzionali dei rispettivi Stati, come anche avvenne per la costruzione e la gestione dei gulag staliniani. La storia giudicherà i nostri odierni comportamenti verso i migranti senza permesso, come ha giudicato quelle ben più tragiche vicende. Noi possiamo dire di non appartenere alla platea degli "indifferenti" e di non tacere, in conformità ai nostri obblighi di giuristi e di cittadini, quanto abbiamo visto nel Cie di Bari.
*avvocati Associazione Class Action Procedimentale
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