
No, non ha certo ragione chi dal mondo politico, da quello industriale e da quello bancario, grida con toni altissimi al complotto antitaliano delle agenzie di rating.
E non si capisce a quale titolo se non per una costante e impropria voglia di protagonismo politico - la Consob faccia sapere di aver convocato i vertici di Moody’s.
Ma questo non significa che l’agenzia Usa, abbassando lunedì sera il merito di credito di ventisei nostre banche abbia reso un buon servizio al mercato e agli investitori. Il motivo è semplice: il giudizio emesso - che in sostanza significa che i nostri istituti hanno un po’ meno probabilità di rimborsare i loro debiti di quanto la stessa agenzia pensasse in precedenza e che quindi prendere denaro in prestito diventerà per loro più caro - era già scontato dal mercato. La prova? Ieri mattina, all’apertura delle Borse europee e con il corposo rapporto di Moody’s universalmente noto, le banche italiane andavano benissimo. Unicredit e Intesa-Sanpaolo erano addirittura le due migliori in Europa. Poi, nel pomeriggio, il clima è bruscamente cambiato. Ma non solo sulle banche e non certo per il giudizio di Moody’s. Il motivo, sotto gli occhi di tutti, si chiama Grecia. La paura, ovviamente, è quella di un’esplosione dell’euro.
Ancora una volta, insomma, un’agenzia di rating non ha fatto da vedetta per segnalare al mercato quali terreni e quali insidie ha davanti, ma da semplice cartografo che descrive un territorio già esplorato. La riduzione del voto sulle banche segue del resto in modo quasi automatico quella del voto sulla Repubblica italiana espressa da Moody’s lo scorso febbraio e si basa su tre motivi principali - economia in recessione aggravata dalla politica di austerità, aumento delle sofferenze bancarie, accesso più difficile al finanziamento da parte degli istituti che non sono smentibili, ma che non rappresentano una novità. Anzi, alla luce dei buoni risultati trimestrali di alcune banche che stanno uscendo in questi giorni, certe preoccupazioni potrebbero anche risultare eccessive.
La bocciatura, per quanto scontata, non è però neutra: riducendo il merito di credito degli istituti colpiti ne aumenta i costi di finanziamento. E questo, in un momento in cui la liquidità di tutta Europa è scarsa e sostanzialmente parcheggiata presso la Banca centrale europea che dopo due maxioperazioni di finanziamento potrebbe già vedersi costretta a una terza mossa dello stesso tipo - rischia di aggravare la situazione dell’economia italiana, spingendo le banche a ridurre ancora di più i finanziamenti alle imprese. Questo può spiegare le reazioni accese di industriali e banchieri. Mentre le dichiarazioni roboanti dei politici si possono facilmente ascrivere al capitolo della demagogia: tuonare contro le agenzie di rating, gli immancabili «speculatori» e la cecità della finanza, non ha mai fatto perdere un voto. Anzi. E nessuno pare avere interesse a chiedersi se chi urla oggi contro la presunta congiura di Moody’s sia stato a qualche titolo corresponsabile di una situazione dei conti pubblici italiani che si tira dietro le ricette di austerità, il rallentamento economico e in ultima istanza il giudizio peggiore sulle banche.
Se le agenzie di rating volessero servire a qualcosa, e magari riacquistare un minimo di credibilità, potrebbero sforzarsi di guardare avanti invece che indietro. Se le agenzie di rating volessero servire a qualcosa, e magari riacquistare un minimo di credibilità, potrebbero sforzarsi di guardare avanti invece che indietro. E magari, come suggerisce Antonio Guglielmi di Mediobanca - uno degli analisti più esperti di banche in Europa, che il suo giudizio sul settore, non solo in Italia, l’aveva abbassato già quindici mesi fa potrebbero rompere il tabù della tripla A, ossia il voto massimo, costantemente attribuito alla Germania: «Con un’Europa in tempesta, un’economia tedesca che si basa per metà sulle esportazioni e una politica monetaria comune appare incomprensibile come Berlino possa essere ancora considerata un’isola felice». E un realistico abbassamento del suo rating - sostiene Guglielmi – «oltre a orientare per una volta i mercati invece di seguirli, potrebbe spingere nell’inevitabile direzione degli Eurobonds - i titoli di Stato dell’intero Continente - e di una politica monetaria più permissiva». Come quella che oggi aiuta gli Usa o il Giappone a non affogare.
© 2012 La Stampa. Tutti i diritti riservati