
Non è sbagliato guardare con timore al risultato che euroscettici di varia natura otterranno alle elezioni del 25 maggio, ma è insufficiente e potrebbe diventare suicida se il segnale lanciato dalle urne non fosse raccolto dall’Europa e trasformato in volontà di cambiamento. Un editoriale del Financial Times ricordava ieri il giudizio espresso da Giorgio Napolitano in febbraio, parlando al Parlamento europeo che ora deve essere rinnovato dai cittadini elettori: «Siamo al momento della verità per l’unità e per il futuro dell’Europa» . Di questo infatti si tratta, e di questo si tratterà anche se il verdetto elettorale dovesse alla fine risultare meno minaccioso di quanto anticipato sin qui (gli ultimi sondaggi, tutti da verificare, attribuiscono un piccolissimo vantaggio ai Popolari sui Socialisti, e collocano a grande distanza populisti ed euroscettici che potrebbero formare un loro gruppo soltanto con accordi di alleanza).
Ma sarebbe egualmente il totale dei voti di protesta anti-europeista e anti-euro a suonare l’allarme, sarebbe l’avanzata dei partiti eurofobi in molti Paesi della Ue a modificare gli equilibri tracciando una potenziale rotta di collisione tra europeismo e democrazia elettorale, sarebbe insomma un lacerante grido di dolore strumentalizzato da settori politici non più trascurabili a porre l’Europa davanti a una scelta determinante: fingere il successo e non far nulla annunciando così il proprio definitivo declino, oppure reagire, rispondere nel limite del possibile all’inquietudine dei suoi popoli, promuovere con energia la crescita e l’occupazione anche a costo di strappare quelle marginali «flessibilità» che a Berlino e ad altri non piacciono, imparare (e sarebbe sempre troppo tardi) a comunicare anche oltre le élite, ricordare a chi li ha dimenticati i motivi profondi che sono all’origine del processo europeista, contraddire argomenti alla mano (il che richiede una maggiore preparazione delle classi dirigenti) la propaganda degli «and» e di chi li usa , vegliare sulla trasparenza e sul funzionamento delle istituzioni comuni. E tra le istituzioni che dopo le elezioni dovranno (o dovrebbero) lanciare un concreto segnale di cambiamento ci sono proprio il Parlamento e la Commissione.
Il Parlamento in questi ultimi anni ha sfruttato, anche se in parte, i nuovi poteri di intervento che gli sono stati attribuiti dal Trattato di Lisbona. Ma ad inseguire la sua reputazione c’è il ricordo di candidature espresse dalle convenienze consociative della politica interna, ci sono i guadagni eccessivi per i parlamentari (soprattutto italiani), c’è la scarsa frequentazione talvolta proprio da parte dei maggiormente privilegiati, capaci di calcolare quale minima attività garantisce la concessione piena dei compensi. Di tali comportamenti, che si sono peraltro andati riducendo, sono responsabili gli individui, non certo l’Europa. Ma l’Europa può modificare le regole, renderle più stringenti, e se possibile farlo sapere ai popoli indignati e talvolta ignoranti in senso tecnico, perché non informati. La futura presidenza della Commissione (anch’essa sarà rinnovata, durante il semestre di presidenza italiana) è un esempio perfetto delle opportunità e dei pericoli che l’Europa dovrà affrontare nei prossimi mesi. Il Trattato di Lisbona dice che a designare il successore di Barroso saranno i governi, «tenendo conto» del verdetto elettorale del 25 maggio. Una grande novità in termini di democrazia diretta? Forse sì e forse no.
Perché sul prescelto verrà sì chiamato a pronunciarsi il nuovo Parlamento, ma senza potere di veto. E sarà sempre il Consiglio, quello dei capi di governo, a decidere. Qualora il designato coincida con la formazione vincitrice delle elezioni del 25 maggio (per esempio prima vincono i popolari e poi viene scelto il loro candidato Junker), si potrà esaltare l’applicazione del Trattato di Lisbona. Ma si dirà una mezza bugia, perché se il 25 maggio vincessero i socialisti ben difficilmente il loro candidato Schultz otterrebbe il fuoco verde di Angela Merkel e diventerebbe presidente della Commissione. Ci sono troppi interessi nazionali e c’è troppo poco coraggio, nell’Europa che oggi deve finire di fronteggiare la crisi della sua moneta unica. Il punto d’arrivo dell’Europa federale resta valido e risolverebbe non pochi problemi che si dimostrano ben ardui da superare. Ma questo non è tempo di progetti lontani. L’Europa è intergovernativa e tale resterà nel tempo prevedibile, anche se elementi come il controllo centralizzato dei bilanci o l’unione bancaria (da completare) rappresentano tasselli di un federalismo per ora non confessabile. Il tempo è invece quello della ripresa economica e del sollievo sociale che deve accompagnarla, e non esiste un unico «modello» per perseguire ovunque questi obbiettivi. Se l’Europa ripartisse da questa constatazione il suo sarebbe un enorme passo avanti.
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