
01/12/10
Europa
Leonardo Sciascia e i comunisti di Emanuele Macaluso (Feltrinelli, 160 pp., 14 euro) è un libro che ricostruisce il complicato rapporto tra lo scrittore siciliano e il partito comunista. Il punto di vista dal quale lo si racconta è privilegiato e impareggiabile: essendo stato, Macaluso, sia dirigente di quel partito sia amico stretto di Sciascia. Ma il volume, più che per l’archeologia politica, è utile alla genealogia. Cioè per rintracciare i legami di filiazione tra le posizioni politiche e culturali di ieri e quelle di oggi. Più precisamente: per osservare dove e perché si sia compiuta la spaccatura tra una sinistra rapita dal potere di salvezza della magistratura e un’altra fissata sull’inseparabilità della giustizia dalla libertà.
Sciascia si avvicinò al Partito comunista durante il fascismo, «non perché avesse letto Marx o Lenin - scrive Macaluso - ma perché quel partito sapeva intrecciare la lotta per la libertà a quella per la giustizia». Anche dopo la caduta del regime egli continuò a stare dalla parte dei comunisti: ma senza mai irreggimentarsi, piuttosto convergendo con essi su alcuni temi decisivi, come la lotta alla mafia. Che rimase sempre centrale nell’attività di Sciascia, anche quando si consumò l’esperienza con il Pci ed egli approdò nelle fila del Partito radicale. Ma ciò non lo protesse dalle successive accuse di essere «oggettivamente colluso con la mafia» (Nando Dalla Chiesa) nonché un «quaquaraquà» (il comitato antimafia di Palermo di Leoluca Orlando), al punto che un quotidiano come Repubblica si domandò se Sciascia combattesse ancora contro i malviventi oppure fosse passato all’altro fronte.
Tutto questo accadde perché Sciascia firmò sul Corriere della Sera un articolo titolato "I professionisti dell’antimafia", polemizzando con la scelta del Csm di promuovere Paolo Borsellino alla procura di Marsala per meriti eccezionali. In spregio cioè alle regole e alla graduatoria, che avrebbero invece premiato un altro e pur meritevole candidato. L’attacco non era alla persona Borsellino, con cui ebbe infatti modo di chiarire, ma al metodo. Ossia all’idea che per perseguire un fine giusto si possano tollerare strappi piccoli o grandi alla regole democratiche. Il rischio che Sciascia intravedeva era quello di sostituire al simbolo della giustizia («la bilancia») quello dei giustizieri («le manette»). Un pericolo puntualmente materializzatosi, e con il quale si fanno ancora i conti.
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