
Giorni fa mi sono trovato a dialogare con il gesuita padre Michael Paul Gallagher, che presentava a Radio Radicale il suo libro, "Mappe della Fede", uscito nel 2010 in inglese e oggi in italiano per le edizioni Vita e Pensiero di Milano. Padre Gallagher, irlandese, vive a Roma, è rettore del Collegio Bellarmino e insegna Teologia fondamentale presso la Pontificia Università Gregoriana. Questo suo ultimo libro ha un sottotitolo, "Dieci grandi esploratori cristiani": si propone infatti di "rendere accessibile" la "saggezza" di dieci "giganti" della teologia moderna e contemporanea, da John Henry Newman a Maurice Blondel, e poi via via a Karl Rahner, Hans Urs von Balthasar, Bernard Lonergan, Dorothee Molle, l'italiano Pierangelo Sequeri e, infine, Papa Benedetto XVI. Oltre ai teologi, viene riletto il pensiero religioso della scrittrice Flannery O'Connor e del sociologo canadese Charles Taylor. Varie voci, un solo tema, un solo binario: la teologia. La teologia possibile oggi, nel nostro tempo.
Quale è il filo che lega questi nomi? L'autore ricorda che il mondo contemporaneo ha perso il contatto con la fede, quella fede che un tempo si presentava come un "aspetto normale della vita, dalle preghiere domestiche alle occasioni di vita parrocchiale: le benedizioni, le missioni, le messe solenni". "Una sessantina di anni fa evoca nostalgicamente padre Gallagher "la maggior parte delle persone aveva una mentalità da paese, perfino in una metropoli come New York. (...) Fede e appartenenza erano quasi due facce di un'unica medaglia". Sono colto un po' di sorpresa, non mi ero veramente reso conto della profondità del mutamento antropologico, ormai - sopravvenuto nell'ultimo mezzo secolo o poco più: "Oggi è raro che un bambino faccia esperienza di una religiosità ereditata in modo così liscio e pacifico".
Conseguenza? "Dovunque nel mondo occidentale la chiesa ha perso drammaticamente terreno e in molti casi ha smesso di essere al centro della vita delle persone. Nella complessità odierna, essa è solo una delle molte fonti potenziali di significato; e non delle più attraenti, oltretutto". La chiesa cerca di contrastare la deriva ma, osserva padre Gallagher, "investendo il suo intero capitale sull'aspetto sacramentale (...) rischia di mettere il carro avanti ai buoi. Le persone prima devono riscoprire la loro anima, riappropriarsi di quei desideri che il modo di vivere prevalente tende a spegnere". Occorre perciò innanzitutto risvegliare, o eccitare nelle menti "una base personale di 'immaginazione religiosa"'. La conquista, la percezione della fede, seguirà - o potrà seguire, nulla è scontato - solo dopo.
È necessario dunque che la cristianità, il cattolicesimo individuino percorsi adatti a fare risorgere il senso intimo (e ultimo) della fede nell'uomo di oggi, complesso e distratto. Padre Gallagher ci indica l'esempio di queste figure che si sono avventurate nella ricerca di soluzioni al tormentoso problema. E la predilezione di padre Gallagher va per chi, come il cardinale Newman, indica nell'immaginazione, nel coinvolgimento dei sentimenti, il momento psicologico necessario a far nascere e fiorire la fede. L'affermazione "Dio esiste" può restare una "ammissione fredda e inefficace", incapace di scaldare i nostri cuori e sentimenti, mentre produrrà una "rivoluzione nella mente" se "entra nella nostra 'immaginazione"'. "Quando l'immaginazione si risveglia - osserva Gallagher sulle orme di Newman - la fede evade dall'impersonale e diventa fruttuosamente esistenziale". Su questa scia seguono, più o meno, gli altri "giganti". Ci sono varianti, come il teologo Von Balthasar, e c'è poi la figura conclusiva di Benedetto XVI, che introduce il tema della comunità ecclesiale come vincolo ma anche come culla necessaria ad accogliere e promuovere le singole esperienze. Le osservazioni del mio interlocutore sono acute, ma credo che non siano conclusive. Il fatto stesso che da Newman a oggi - in oltre un secolo e mezzo nonostante questi grandi religiosi la chiesa segni il passo dinanzi alla scristianizzazione, è un argomento dissuasivo non poco convincente. Penso: ma è possibile che la laicità debba essere considerata un male, non un arricchimento del cammino umano? E' possibile che le indagini sociologiche, convergenti nella constatazione "che il declino della religiosità nel mondo è lento ma costante" (come afferma Vito Mancuso in un recente intervento giornalistico), siano la scoperta del male, di un declino spirituale, di una sconfitta antropologica?
Padre Gallagher ricorda come Papa Benedetto XVI abbia menzionato il "cortile dei gentili", l'area del Tempio di Gerusalemme aperta ai non-ebrei: ancora oggi, ha detto, in una simile area ideale, la chiesa è aperta al dialogo con tutti, non credenti, laici e così via. Osservo che non c'è bisogno che i laici aprano un analogo "cortile" per il dialogo con clericali, ortodossi e fedeli "credenti". Forse è questa, anzi, la loro superiorità: essere laici (niente a che vedere con i laicisti) è essere aperti al dialogo comunque e sempre. Non hanno sedi privilegiate.
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