
Matteo Renzi non resiste alla tentazione di attribuirsi in pubblico il merito della rinuncia di Veltroni a candidarsi. È comprensibile, s'intende, visto che è lui l'inventore del termine «rottamazione», peraltro orribile, ed è sempre lui ad avere impostato tutta la campagna delle primarie sull'esigenza di pensionare buona parte del gruppo dirigente del Pd.
Tuttavia in cuor suo il sindaco di Firenze non deve essere altrettanto compiaciuto. Ai fini pratici, se l'obiettivo è la vittoria nel duello contro Bersani, gli avrebbe fatto più comodo un Partito Democratico chiuso a riccio, sordo a qualsiasi richiesta di rinnovare la classe dirigente. Una simile condizione avrebbe costituito il migliore «spot» per la campagna dissacrante dello sfidante. Ora invece la mossa di Veltroni spiazza un po' tutti: i nomi noti del vecchio gruppo di vertice, è logico, perché non sanno cosa fare; ma in fondo anche il giovane rottamatore fiorentino.
Si dimostra che in un modo o nell'altro, attraverso vie imprevedibili, il «cambiamento» invocato da Bersani comincia a manifestarsi persino all'interno delle mura poco permeabili del partito. E in fondo il segretario-candidato si trova al crocevia giusto per ricavarne qualche vantaggio politico, più e meglio di Renzi. Certo, a quest'ultimo resta la palma del profeta. Senza di lui e senza il suo urticante messaggio non sarebbe successo niente: né Veltroni né altri avrebbero fatto il fatidico passo indietro. Tuttavia è noto che in politica con le soddisfazioni morali si va poco lontano. Nella vecchia Urss Boris Eltsin vince quando si dimostra che lo Stato sovietico è irriformabile e che Gorbaciov è un illuso. Se viceversa l'ultimo segretario del Pcus fosse riuscito ad avviare un programma di riforme e a rinnovare sul serio l'immagine della patria del socialismo, forse la storia sarebbe stata diversa.
In fondo oggi Bersani può dimostrare che le riforme interne e il rinnovamento del partito non sono "slogan" vuoti. Per un verso anche lui è spiazzato dalla mossa veltroniana; ma per un altro è vero che da oggi i suoi spazi di manovra sono cresciuti. Purchè, sia chiaro, egli riesca a tenere in mano tutti i fili della matassa.
In altre parole, se il ricambio del gruppo dirigente avverrà con calma, senza strappi e senza prendere il sapore dell'epurazione, Bersani potrà gestirlo a proprio totale favore. Proprio quando il sindaco di Firenze si troverà espropriato del suo principale cavallo di battaglia. Del resto i voti si catturano sull'attesa di un risultato, sulla speranza di combattere una battaglia vittoriosa. Se invece la battaglia si vince senza nemmeno bisogno di combatterla, c'è il forte rischio che la tensione venga meno e il popolo dei "fedeli" si distragga.
È presto per dire come finirà, ma a Renzi converrebbe che nessuno o quasi seguisse l'esempio di Veltroni. Tutto quello che invece serve a promuovere il ricambio del gruppo dirigente in luogo della «rottamazione» pura e semplice, riduce lo spazio del sindaco. L'opposto di quello che può accadere - almeno sulla carta - a Bersani. Anche perché la campagna dello sfidante non può essere mono-tematica. L'inizio è stato sfolgorante, ma ora all'improvviso il tema dei pensionamenti eccellenti potrebbe non essere più così trainante. E al sindaco difettano altri argomenti di così sicuro impatto.
© 2012 Il Sole 24 Ore. Tutti i diritti riservati