
Le circostanze favorevoli, ma anche la credibilità internazionale di Monti, offrono all’Italia l’occasione di esercitare un ruolo importante nei prossimi dieci giorni che, parafrasando John Reed, davvero possono «sconvolgere il mondo» e, soprattutto, il nostro continente. Come quasi sempre è avvenuto nella storia dell’Unione europea, la partita decisiva per salvare la moneta comune si giocherà tra Germania e Francia. La prima è favorevole ad ammorbidire il suo dogmatismo finanziario solo se gli Stati dell’eurozona saranno disposti a cedere gran parte della loro sovranità, nelle politiche economiche dei loro Paesi, al potere sovrannazionale dell’autorità comunitaria. La seconda, nel solco di una lunga tradizione di orgoglioso e geloso rifiuto di qualsiasi soggezione francese, pare tutt’altro che pronta ad acconsentire alle richieste della Merkel. Ecco perché al nostro presidente del Consiglio, erede della funzione esercitata dall’Italia fin dall’atto costitutivo del primo nucleo della Comunità europea, è affidato il compito di trovare una mediazione tra queste due, apparentemente inconciliabili, posizioni.
In attesa dell’esito di questa fondamentale scommessa negoziale, consapevoli dell’importanza per le sorti di tutta l’economia internazionale, i leader più importanti del mondo, a cominciare da Obama e dal cancelliere tedesco, cercano di rafforzare la posizione di Monti con elogi, persino un po’ esagerati, per i progressi compiuti dall’Italia sulla via del risanamento finanziario e delle riforme strutturali. In un pianeta in cui la comunicazione mediatica è così globalizzata, immediata e determinante per raccogliere l’indispensabile consenso dell’opinione pubblica agli sforzi di un leader, il tentativo di infondere fiducia e accrescere l’autorevolezza di Monti, in un momento così delicato, assume, evidentemente, il significato di una ben precisa azione di politica internazionale.
Se questo è il quadro nel quale il presidente del Consiglio italiano si dovrà muovere e se questo è il clima che circonda il suo fondamentale impegno, è impressionante e drammatico lo scenario che, invece, si palesa in questi giorni in Italia. Un contrasto che, davvero, prima stupisce e, poi, indigna.
Ricapitoliamo la nostra storia politica recente. Reduci da un clamoroso fallimento di credibilità internazionale e di efficienza riformista dei governi che si sono succeduti negli ultimi anni, i partiti sono stati costretti ad ammettere il loro scacco e ad affidare le sorti del nostro paese a un esecutivo «tecnico». Ma la promessa di coloro che hanno deciso di sostenerlo, non solo con il voto parlamentare, ma soprattutto aiutandolo a rendere consapevoli i cittadini della necessità di sacrifici per evitare la bancarotta, è durata ben poco.
Il tentativo, peraltro inutile, di ridurre gli effetti elettorali della delusione generalizzata verso tutta l’attuale classe politica ha indotto non tanto l’esigua opposizione parlamentare a una sfrenata rincorsa demagogica di tutti i timori degli italiani, quanto la stessa maggioranza a minare, tutti i giorni, il sostegno dell’opinione pubblica all’operato del presidente del Consiglio e dei suoi ministri. Gli esempi sono talmente numerosi che basta sfogliare i giornali delle ultime settimane per compilarne un elenco assai affollato. Per limitarsi ai casi più recenti, citiamo l’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi che, ancora ieri, proprio mentre Monti cerca di salvare l’euro, insiste sull’ipotesi di tornare alla lira. La richiesta del governo di approvare la riforma del lavoro, come segnale della coesione politica italiana in vista dei vertici europei decisivi di fine mese, inoltre, viene sottoposta a condizionamenti ricattatori che arrivano da entrambe le maggiori forze politiche della sua maggioranza parlamentare. In più, anche le rappresentanze sociali non dimostrano molto senso di responsabilità su un argomento così delicato: il neopresidente della Confindustria comincia infelicemente il suo mandato con una battuta, di fantozziana memoria, assai discutibile. I sindacati, da parte loro, almeno nelle parole dei loro leader nazionali e, per fortuna, meno negli atteggiamenti concreti nelle fabbriche, non solo accendono tutti i fuochi della protesta, ma usano un linguaggio, nei confronti del ministro del Lavoro Fornero, di una violenza inaccettabile e irresponsabile.
In questo quadro, già preoccupante, rischia di indebolirsi anche l’altro pilastro che, finora, ha retto, con Monti, il periclitante vascello della navigazione italiana nella tempesta finanziaria internazionale: il Quirinale. Dietro il «caso Mancino», sono evidenti il durissimo scontro di apparati dello Stato e, soprattutto, le faide nella nostra magistratura che colgono questo pretesto per proseguire una lotta sotterranea e inquietante che dura ormai da molti anni. Il rischio è che, in tale momento difficilissimo, il tentativo di coinvolgere il presidente della Repubblica in una polemica di cui, almeno finora, non si vedono i motivi, possa disorientare l’opinione pubblica nei confronti dell’unica autorità nazionale che gode il rispetto della quasi totalità degli italiani. Con l’aggravante di accentuare gli scricchiolii di un assetto istituzionale e politico che, al contrario, avrebbe l’esigenza di dimostrare la massima coesione di intenti e il massimo senso di responsabilità.
Il contrasto tra i primi, certo non sufficienti ma confortanti, segnali positivi che vengono dalla formazione del governo greco, dagli indici della Borsa e dagli spread e i segnali di scollamento della società italiana e delle sue rappresentanze politiche, sindacali, imprenditoriali e civili è ormai troppo clamoroso per non suscitare un allarme grave e urgente.
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