
Chi ha conosciuto Loris D'Ambrosio sa quale persona seria e scrupoloso giurista egli fosse. Era stato collaboratore di Giovanni Falcone al ministero di Grazia e Giustizia e questo punto da solo dice molto, se non tutto. Al Quirinale ha servito sotto due presidenti, Ciampi e Napolitano.
Il capo dello Stato lo ha ricordato con parole appassionate e animo addolorato, al di fuori dei consueti codici di prudenza istituzionale: «atroce rammarico per una campagna violenta e irresponsabile di insinuazioni ed escogitazioni ingiuriose cui era stato esposto». Il nesso morale con l'inchiesta di Palermo è così indicato senza giri di parole e del resto nessuno dubita che lo stress per quelle giornate di fuoco abbia contribuito alla drammatica, improvvisa fine del consigliere giuridico.
D'altra parte, c'è da sperare che le forze politiche evitino di precipitarsi nel carosello delle polemiche. Il miglior modo per rendere omaggio alla memoria di D'Ambrosio è ricordarlo come un onesto servitore dello Stato, senza sfruttarlo per l'ennesima, inutile sfida fra Parlamento e magistratura. Ma tale scrupolo non può riguardare solo i politici. L'uso mediatico della giustizia produce danni alla convivenza civile, colpisce le persone, talvolta in modo irreparabile, e non avvicina la verità. Anche su tale aspetto è opportuno che rifletta chi è titolare di responsabilità delicate. Le inchieste sono, come è ovvio, lo strumento per accertare eventuali reati penali e non possono trasformarsi in un ariete per scardinare le istituzioni o riscrivere la storia d'Italia.
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