
07/09/10
Il Giornale
Gianfranco Fini è un grande furbo. Ha fatto un discorso da perfetto capo dell'opposizione, ma rimane acquattato nella maggioranza per conservare i privilegi di cui gode: stare assiso sulla poltrona più alta di Montecitorio, controllare i lavori della Camera, mandare avanti le leggi che gli piacciono e boicottare quelle che non gli garbano, lasciare alcuni suoi uomini nel governo e quindi essere informato su quanto avviene in Consiglio dei ministri, continuare a stare a destra con un piede e con l'altro a sinistra per garantirsi gli applausi degli antiberlusconiani. Al consenso dei progressisti non può rinunciare, ne ha bisogno per sentirsi importante, padrone dei destini della Patria. Non si rende conto che i Bersani, le Bindi e compagnia cantante lo considerano un utile idiota, capace solo di rendere dura la vita al premier e alla sua squadra. Non avverte il pericolo di tornare immediatamente a essere trattato, qualora il governo cadesse, per quello che è ed è sempre stato nel giudizio degli ex comunisti e affini: un fascista di risulta, sbarazzatosi del fez per entrare nell'arco costituzionale e fare carriera.
Fini detesta Berlusconi. Il suo sogno è fargli le scarpe, ma al tempo stesso ha paura a mollarlo del tutto perché ciò comporterebbe, probabilmente, elezioni anticipate col sistema elettorale vigente che prevede lo sbarramento al 4 per cento. Una fregatura, per lui, dal momento che Futuro e libertà (il suo partito che non è ancora un partito, ma è pronto a diventarlo) è dato dai sondaggi intorno al 2-3 per cento e rischierebbe, pertanto, di non superare la soglia minima per accedere al Parlamento.
Rifondazione comunista docet. L'uomo ha un'altra preoccupazione che lo costringe a decidere di non decidere: quella di non dare l'impressione agli italiani di essere la causa del fallimento della maggioranza più ampia che la storia repubblicana ricordi. I cittadini perdonano tutto ai politici tranne la litigiosità per questioni di potere, e hanno sempre castigato coloro i quali hanno provocato crisi per fatti personali. La speranza del presidente della Camera era che il Cavaliere presentasse il cosiddetto «processo breve». A quel punto sarebbe stato un gioco da ragazzi per Futuro e libertà gridare allo scandalo: guardate come si è ridotto il dittatore di Arcore, esige un'altra legge ad personam per salvarsi dalle grane giudiziarie; ma noi, che siamo perla legalità, impediremo tale schifezza a costo di mandare a gambe all'aria l'esecutivo.
Figuriamoci la sinistra. Si sarebbe unita al coro, avrebbe festeggiato la «banda degli onesti» (sedicenti), e Napolitano, molto sensibile alle istanze della casa madre che lo ha spinto sul Colle, forse avrebbe tentato di impapocchiare una maggioranza e un nuovo governo a orologeria, cioè della durata necessaria ad approvare un sistema elettorale punitivo per Pdl e Lega. Questa, dicevo, era la speranza di Fini. Ma, all'ultimo istante, il premier ha ritirato il «processo breve» non perché adesso gli piaccia lungo (come a tanti cretinetti), bensì per non offrire al Furbetto del quartierino monegasco alcun pretesto che gli consenta di abbattere il governo scaricando la colpa sullo stesso premier. Davanti alla mossa del Cavaliere, Fini è stato costretto a tergiversare nel modo descritto: un piede di qua e uno di là, senza scegliere e cercando di temporeggiare. In altre parole ha rilanciato la palla al Pdl, in attesa che il partito avalli o si rimangi il famoso documento di espulsione del cofondatore. L'interrogativo ora è uno solo: che cosa accadrà? Lo sapremo presto. Quando tra una settimana o poco più ricomincerà l'attività parlamentare, i protagonisti della manfrina scopriranno per forza le carte e capiremo chi ha in mano l'asso e chi il due di picche. Non mi riferisco al voto di fiducia, che Fini ha già annunciato di concedere, ma ai provvedimenti in calendario che l'assemblea sarà chiamata ad esaminare. Se i finiani desiderano collaborare, accettando la linea politica maggioritaria, la legislatura andrà avanti sia pure zoppicando; se invece prevarrà in loro la voglia di infastidire e innervosire gli alleati, le Camere saranno sciolte, sempre che il presidente della Repubblica non abbia in testa disegni alternativi di cui ci sfuggirebbe il senso.
Non ho notizie dirette, ma ho la sensazione che Berlusconi abbia perso la pazienza e non intenda più venire a patti con Fini, del quale non si è mai fidato molto, immaginatevi in questa fase. Quindi aspettiamoci il peggio. O il meglio, a seconda delle opinioni. Fra l'altro il Cavaliere e Bossi sembrano in sintonia:si voti e non se ne parli più. D'altronde il discorso del presidente della Camera a Mirabello non ha aperto spiragli all'ottimismo. Esaminiamo i passaggi che mostrano l'incompatibilità tra Futuro e libertà e la coalizione. Fini afferma di essere stato cacciato in due ore dal partito e di non essere nemmeno stato ascoltato. È una boutade. Perché se è vero che il documento di espulsione è stato stilato in due ore, è altrettanto vero che la diatriba iniziò due anni fa e non si è mai sedata.
Dodici mesi orsono - esattamente come oggi, il 7 settembre - proprio Il Giornale se ne occupò in prima pagina con un titolo («Dove vuole arrivare il "compagno" Fini») che fece imbestialire gli ex aennini, i quali negarono addirittura che vi fosse un contenzioso politico e personale tra i fondatori del Pdl. Invece la realtà era esattamente quella descritta da noi: un Fini sempre più incoraggiato dalla sinistra a combattere contro il Cavaliere, e un Cavaliere non in grado di ricucire gli strappi se non per un paio di settimane. Il conflitto si è così inasprito fino a esplodere. La scena televisiva in cui i due se ne dicevano di tutti i colori è ancora viva nella memoria di tutti: Berlusconi che parlava al microfono e Fini, in piedi sotto il palco, che col dito alzato lo sfidava. Non si era mai visto nulla del genere. E come dimenticare il fuori onda in cui il presidente della Camera, bisbigliando all'orecchio del procuratore della Repubblica di Pescara, Nicola Trifuoggi, auspicava che la magistratura levasse di torno il premier? Episodi che dimostrano l'inevitabilità del «divorzio», altro che rappacificazione, altro che democrazia interna al Pdl.
Il dissenso è lecito, ma va espresso ed elaborato dentro il partito, non in tivù, non nei fuori onda, non in piazza dove radunare cinquemila persone è facile; più difficile riempire le urne, e se ne accorgeranno quelli di Futuro e libertà. Quale libertà, poi? Quella di farsi eleggere nelle liste berlusconiane e, una volta conquistato il seggio, amoreggiare con l'opposizione ponendosi al suo servizio? Ancora. La terza carica dello Stato non partecipò alla campagna elettorale per le regionali (motivi istituzionali, obbligo di equidistanza) però nel frattempo brigò per costituire un partito e fregare il Pdl. Fini critica aspramente i tagli tremontiani dimenticandosi che hanno consentito all'Italia di non essere travolta, a differenza di altri Paesi europei, dalla crisi mondiale. Critica in particolare il ministro Gelmini perché non ha assunto 200mila precari della scuola, ma non fiata sull'irresponsabilità di chi in passato reclutò quei precari, ingigantendo il debito pubblico. Fini si scaglia contro il federalismo fiscale perché - dice - forse aumenterà la spesa anziché diminuirla.
Come si fa ad affermare una simile sciocchezza? Se una pinza chirurgica costa 10 euro a Milano e 20 a Reggio Calabria, è ovvio che standardizzando la spesa si eliminerà lo spreco calabrese senza fare torti alla Calabria. Da tutto questo si evince la pochezza politica del reuccio di Montecitorio, la capziosità dei suoi argomenti, la loro inconsistenza logica. Emerge soltanto la spocchia, la smania di protagonismo, la frustrazione, l'ansia di rivincita. Che miseria. Per concludere, un cenno alle vicende oscure svelate dal Giornale con le sue inchieste: l'appartamento di Montecarlo di cui il lettore sa tutto; il contratto Rai ottenuto dalla suocera grazie alle pressioni esercitate dal genero sulla dirigenza dell'ente; il patrimonio della sua compagna, Elisabetta Tulliani.
Fini non ha aperto bocca se non per insultare con linguaggio mafioso: infami, ci ha detto. Ma infame è chi, pur essendo al vertice di un'istituzione, non sente il dovere di rispondere alle contestazioni documentate della stampa e liquida il problema insolentendo i giornalisti che l'hanno sollevato. Un leader che rivendica il diritto alla libertà di critica e lo nega agli altri perché «tiene famiglia», è un piccolo leader. La sua è molto di più di una famiglia. È una ditta, un'azienda che fa ottimi affari. Sono affari leciti? Questo pretendiamo di sapere. Del resto non c'importa niente.
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