
L’ impressione è che Gianfranco Fini si trovi di colpo di fronte a un ultimatum. È vero che le frasi pronunciate quando si pensa che i microfoni siano spenti provocano sempre un’eco ambigua.
Suonano come un «furto» della buonafede.
Ma le parole dette il 6 novembre scorso al procuratore di Pescara durante un convegno, con giudizi taglienti contro Silvio Berlusconi, sono state rivendicate dal portavoce del presidente della Camera. Sarebbero la prova della «coerenza» delle sue parole in pubblico e in privato. Tendono dunque ad assumere un peso che aggrava il conflitto tra i due fondatori del Pdl. Per il capo del governo, si tratta di un incidente insperato: conferma un’ostilità venata dal sarcasmo nei suoi confronti. E poi, a rendere noti i contenuti della conversazione non sono stati qualche tv o giornale di famiglia di Berlusconi. Al contrario, ad autorizzare la divulgazione è stato il presidente del «Premio Paolo Borsellino», che voleva far conoscere il pensiero di Fini.
L’episodio trasmette una sensazione sconcertante. La terza carica dello Stato incontra per la prima volta un alto magistrato, Nicola Trifuoggi, ad un dibattito. E gli confida di considerare il suo principale alleato irrispettoso di qualunque istituzione: sia essa il Quirinale, il Parlamento o la Corte Costituzionale. Ancora, sostiene che Berlusconi confonde «il consenso con l’immunità», e «la leadership con la monarchia assoluta». Ed ironizza pesantemente su un presidente del Consiglio che si riterrebbe immortale. Se a questo si aggiungono i giudizi di Fini sull’effetto «bomba atomica» delle rivelazioni del pentito di mafia Gaspare Spatuzza, lo sfondo diventa torbido: tanto più che chiama in causa Nicola Mancino, vicepresidente del Csm.
Non è chiaro fino a che punto si possa parlare di frasi imprudenti, nel momento in cui vengono quasi autenticate. Mancino replica gelidamente di non conoscere dichiarazioni di Spatuzza sul suo conto.
Ribadisce «l'assoluta estraneità ad ogni coinvolgimento nella presunta trattativa Stato-mafia». E Fini si affretta a telefonargli per spiegare di avere fatto confusione. Ma questo conferma un’esternazione maldestra, che l’opposizione cerca di sfruttare. Antonio Di Pietro chiede a Fini di essere conseguente, bloccando le leggi sul processo breve. E addita la «caduta del secondo impero».
Si riferisce al 1992 e alla Prima repubblica.
Ma alcuni esponenti del Pdl evocano perfino «la sindrome del 25 luglio 1943», con Fini nel ruolo di «traditore» del berlusconismo.
In realtà, l’epilogo è meno scontato di quanto sembri. Il contraccolpo più verosimile è un ulteriore isolamento del presidente della Camera; ed una frenata della strategia di chi punta su di lui come l’alternativa a Berlusconi. Il profilo di Fini «battitore libero» del Pdl si accentua in modo per lui preoccupante. Gli viene chiesto se è «d’accordo con la linea del partito»: un aut aut.
L’avviso di garanzia che ieri ha raggiunto il governatore della Lombardia, Roberto Formigoni, aumenta la prospettiva di uno scontro con la magistratura. E sullo sfondo svolazza il fantasma delle elezioni anticipate.
Fini rischia di avere offerto un pretesto a quanti, nella cerchia berlusconiana, chiedono di tornare alle urne se il Pdl non appoggia il premier senza condizioni sulla giustizia. Il sospetto è che abbia armato i propri avversari senza volerlo e senza rendersene conto: esito ancora più paradossale.
© 2009 Radicali italiani. Tutti i diritti riservati