
Il viaggio in Asia di Barack Obama apre una fase totalmente nuova per l’economia e la politica mondiale.
Per rendersene conto può essere utile aprire una carta geografica del mondo e cercarvi le Hawaii, dove il presidente Obama è nato 48 anni fa. Piantate in mezzo al Pacifico, queste isole distano circa 8000 chilometri da Washington e 8500 da Pechino.
Mentre l’Europa si trova a circa 12 mila chilometri. L’Europa è uno dei luoghi geograficamente più lontani dalle Hawaii; basti pensare che per andare a Mosca da Honolulu la rotta più breve passa da Tokyo e non da Londra o Parigi. Il Presidente Obama ha inoltre frequentato le scuole elementari a Giacarta, in Indonesia.
Prima ancora di qualsiasi ragionamento economico o politico ci sono qui premesse molto solide per spiegare l’importanza che egli attribuisce all’area del Pacifico. Obama è un autentico «uomo del Pacifico», mentre quasi tutti i presidenti recenti provenivano prevalentemente dalla costa atlantica e dall’emigrazione europea e spesso avevano ricevuto parte della loro educazione superiore in Europa.
Alla propensione culturale si aggiunge, in maniera prepotente, la realtà dell’economia: dai Paesi asiatici bagnati dal Pacifico (Cina, India, Giappone e «tigri asiatiche») dal 2001 a oggi è derivato circa il 55 per cento della nuova produzione mondiale ossia del «di più» che si è prodotto rispetto al Duemila. Se a quest’Asia dinamica aggiungiamo l’America del Nord arriviamo al 70 per cento della nuova produzione mondiale mentre da un’Europa Occidentale assai poco dinamica - che pure è complessivamente, la seconda area economica del pianeta - è derivato appena l’11-12 per cento. Grazie alla crisi attuale, secondo le più recenti proiezioni del Fondo Monetario Internazionale, nel 2009 la produzione mondiale scenderà dell’1,1 per cento per il pesante arretramento dell’area dell'euro e, in misura minore, degli Stati Uniti; i Paesi dinamici dell’Asia cresceranno del 6,2 per cento.
Siamo in presenza di un’inversione dei «poli economici» del mondo: dopo circa duecento anni in cui gli incrementi produttivi e le realizzazioni tecnologiche sono avvenute in grandissima prevalenza nei Paesi prossimi all’Atlantico Settentrionale, ora non solo il centro dell’attività produttiva, ma anche quello delle tecnologie e della ricerca scientifica si sta spostando verso i Paesi che si affacciano sul Pacifico (e, in parte, sull’Oceano Indiano). La nuova Asia che Obama ha davanti non è quella che produce magliette a prezzi stracciati, ma quella le cui esportazioni elettroniche sono più del doppio di quelle americane, che sa costruire treni ad alta velocità e mandare astronauti nello spazio e che crea più di metà del software del mondo. In un recente libretto, un noto intellettuale francese, Alain Minc, ha avanzato l’ipotesi che entro breve tempo tutti i premi Nobel possano essere conferiti ad asiatici.
La nuova politica americana parte dalla presa d’atto di questa situazione e dalla volontà degli Stati Uniti di partecipare - senza far giocare più di tanto le superiori dimensioni dell’economia americana quasi certamente destinata a essere tra breve raggiunta dalla Cina - a questo nuovo orizzonte e alle prospettive che così si aprono alla stessa America e al mondo. Lo strumento più probabile di collaborazione sarà un settore industriale che ancora non esiste, quello energetico-ambientale, nel quale confluiranno tecnologie diverse e che farà diminuire fortemente l’importanza economico-politica del settore petrolifero. Per il forte carattere innovativo di questa possibile e difficile politica industriale a livello mondiale, America e Asia hanno platealmente rifiutato di essere vincolate a priori dalla conferenza di Copenhagen, fortemente voluta soprattutto dagli europei.
L’Europa, per la prima volta da tempi immemorabili, non viene neppure formalmente invitata al tavolo dei grandi. Di fronte a un simile dinamismo e a quest’ampiezza di visioni si scopre vecchia, stanca e divisa. E’ bastata l’opposizione testarda di un pugno di elettori irlandesi e del presidente della Repubblica Ceca a bloccare a lungo un progetto di costituzione, che non è certo il più elevato esempio di quella democrazia che gli europei spesso considerano il miglior prodotto della loro civiltà. All’interno dei singoli Paesi, una selva di interessi - sicuramente legittimi ma minoritari - blocca trasformazioni che possano davvero garantire lavoro per i giovani e pensioni per gli anziani: gli oppositori dell’alta velocità, gli agricoltori per le vie di Bruxelles, gli scaricatori dei porti, i membri di ordini professionali che non gradiscono concorrenza hanno finora fatto prevalere le visioni «corte» rispetto alle visioni «lunghe» che vanno di moda nel Pacifico.
Discuteranno del futuro di tutti, compreso il nostro, senza di noi. Il prossimo «governo» europeo (ancora sfornito di veri poteri) ha un compito molto difficile e, al suo interno, particolarmente gravoso e cruciale sarà il mandato del ministro degli Esteri, che potrebbe essere un italiano. In ogni caso, da qualunque Paese provenga, non possiamo che augurarci che sia all’altezza dei tempi nuovi.
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