
È da diversi anni che il Sole 24 Ore mette in evidenza che nel nostro Paese il ceto medio professionale è stato dapprima ostacolato nella sua crescita dal declino economico e poi seriamente danneggiato dalla crisi. Non abbiamo esitato a parlare di ceto medio "in bolletta", intendendo con questa espressione lo status di deprivazione relativa sofferto da quest'architrave sociale della democrazia. In effetti, a fronte di un calo del 5% del reddito reale disponibile delle famiglie italiane, nel periodo 2005-2010 quello dichiarato dai professionisti iscritti alle Casse previdenziali è diminuito all'incirca del doppio, con una punta del 20% nell'area professionale giuridica.
La crisi ha gelato la stessa dinamica occupazionale che era stata molto vivace negli anni Novanta, quando i liberi professionisti iscritti agli Ordini erano aumentati di circa il 60% (le donne erano raddoppiate). I primi anni di esordio del Duemila avevano anzi evidenziato che finalmente, anche in Italia, seppur con le note contraddizioni legate alla sua struttura produttiva basata sulle Pmi e di servizi segnati da un'endemica arretratezza in termini di produttività ed efficienza, i new professionals a vocazione tecnica e tecnologica stavano crescendo per quantità e rilevanza sociale ed economica. Ci riferiamo a tutta quell'area di nuovo professionismo legata in particolare ai servizi alle imprese e quindi all'informatica e alla qualità, al design e alla comunicazione, all'internazionalizzazione e al marketing dei nostri prodotti.
Per altro quest'area, con un bagaglio cognitivo di sapere codificato, ma anche generativo e creativo, era apparsa resistente alla crisi fino al 2009, quando i guai finanziari iniziarono a contagiare l'economia reale e quindi anche i servizi. Da allora la caduta di redditi e di occupazione ha cominciato a flettere verso il basso per quasi l'intera platea dei professionisti. Si sono salvate solo le professioni sanitarie che potremmo definire anticicliche, al pari delle spese mediche delle famiglie che hanno continuato a crescere in questi anni. La crisi, colpendo i professionisti, non solo contribuisce a sfarinare un tradizionale collante della nostra struttura sociale - il ceto medio - ma infligge un duro colpo a quella (seppur lenta) modernizzazione delle nostre risorse umane che sembrava avviata con una significativa espansione del brain power in area produttiva e di servizio.
Il collasso del professionismo è dunque una gran brutta notizia anche per la nostra economia che, essendo complessivamente distante dalla frontiera tecnologica, deve cercare nell'innovazione una porta girevole preziosa per un'exit strategy dalla crisi: i new professionals, come li definì Alvin Gouldner, costituiscono un eccellente lubrificante per migliorare e innovare i nostri motori economici.
Oggi sembra che siano danneggiati quegli ascensori sociali - già per altro difettosi - di cui tradizionalmente disponiamo: il mettersi in proprio, il professionismo e persino l'istruzione terziaria. Ne fanno le spese soprattutto i nostri giovani, già provati da un tasso di disoccupazione "intellettuale" senza precedenti. Il rapporto Alma Laurea ha di recente evidenziato che le retribuzioni dei nostri giovani laureati, a dieci anni dalla laurea, hanno visto diminuire i loro compensi anche fino al 50% rispetto al 2001. L'istruzione universitaria, che trent'anni fa appariva l'hub principale per quanti avevano un'aspettativa d'ascesa sociale e che vent'anni prima, negli Usa, aveva fatto ispirato Vincent Packard nella sua analisi delle nuove élite dei laureati, ora appare sbiadire in un ruolo più incerto. Anche la caduta della propensione al mettersi in proprio tra i giovani sta subendo, con la crisi, una sorte analoga, visto il crollo dell'incidenza degli under-35 in attività imprenditive, soprattutto in quell'area centro-settentrionale del paese dove essa aveva svolto una funzione preminente per lo sviluppo economico.
I nostri giovani professionisti, anche in area tecnico-scientifica, o si rassegnano a compensi irrisori "in entrata" o sono costretti sommessamente a prendere la via di un'emigrazione intellettuale davvero rischiosa per il nostro paese perché lo impoverisce di elementi competenti. Inutile poi meravigliarsi che tra i meet up del M5S di Grillo ci siano tanti laureati e professionisti delusi e che la parte più talentuosa dei nostri giovani veda con risentimento che il merito non viene premiato e che mai, come in questi duri tempi di crisi, solo conoscenze e raccomandazioni risultano premianti per accedere al mondo del professionismo. Monti ha voluto dare un segnale consentendo ai giovani di costituirsi in attività imprenditive con un solo euro. Purtroppo i problemi sono ben altri in tempi di credit crunch, di persistenza di una burocrazia dir poco farraginosa, di liberalizzazioni che stentano a decollare e di un merito apprezzato solo a parole.
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