
Stavolta il mite Bersani infierisce contro Renzi. «Per votare ci vorrà un po' di pazienza», dice, ma il successo delle primarie «è una meraviglia: piazze piene, già 700mila iscritti online e un dibattito fantastico sulla rete. Ci abbiamo preso». Si fa beffa di Renzi che ormai cambia idea su tutto: su Marchionne, sulla rottamazione, persino sulla Tav («c'è stata un'evoluzione della specie», lo ha sfottuto l'altra candidata Laura Puppato). E ora proprio sulle ex «ridicole» regole per le quali è ricorso al garante. Ieri il sindaco di Firenze a La7 ha ammesso che la suo polemica si è risolta in un boomerang autoinflitto: «Ho pompato molto il fatto che sono una schifezza perché lo penso davvero» ma «a forza di di lamentarmi ho dato l'impressione che fosse più difficoltoso andare a votare».
Che il sindaco di Firenze vinca ormai ci crede lui, (»sarà un testa a testa, ci saranno delle sorprese») e il suo spin Gori (»se votano in tanti può farcela»). Neanche più il braccio destro Reggi, che già apparecchia la discussione sul 'dopo': «Il partito non è stato neutrale, ha messo a disposizione di Bersani risorse e amministratori». Per Vendola, convinto di andare meglio di quanto i sondaggi prevedano, la vittoria di Renzi è «fantapolitica». Ma ormai è il «dopo a tenere banco.
Il numeretto del Bersani-lotto
Perché ormai nel Pd, in Sel, fra i centristi, a sinistra di Sel, tutti aspettano solo il risultato delle primarie. La percentuale con cui Bersani si piazzerà al primo turno (vincerà, giurano i suoi), quella con cui Vendola marcherà lo spazio della sinistra nell'alleanza. Numeri da cui discende tutto: la forza con cui Bersani respingerà la legge elettorale «ad usum Casini», con cui costruirà il ponte con il centro «montista» di Montezemolo o di Casini (in quest'ordine di priorità, secondo l'ultima tattica comunicativa del Nazareno): i quali a loro volta aspettano di misurare la solidità interna del futuro candidato premier del centrosinistra.
La miniscissione ex ppi in attesa
C'è tutto il capitolo delle ripercussioni interne al Pd. Bene che vada per Bersani, Renzí guiderà la minoranza interna. Gli ex ppi di Fioroni si sono - tranne in alcune città come Torino - blandamente schierati con il 'leader tuttavia accusandolo di eccessi laburisti. E sono pronti a uscire (già dai gruppi parlamentari) per raggiungere la futura umanità centrista: a patto che Monti smetta di essere un madonna da invocare, e scenda in campo da federatone, per allearsi con il Pd.
Il congresso rimosso
C'è il core business della vita interna del Pd, di cui è vietatissimo parlare: il prossimo congresso, grande rimosso, in cui Bersani ha promesso di arrivare dimissionario «perché la ruota gira». Del resto: se vincerà farà il premier, e quindi dovrà dimettersi; se perderà avrà perso, e dovrà dimettersi. Ma una successione condivisa non c'è, come tutto nel partito di Bersani e Renzi. Certo non è condivisa la leadership di Dario Franceschini, il cattolico che nella mente di Bersani bilancerebbe la sua premiership post comunista. Franceschini si è pubblicamente schermito.
Ma non è un caso che il «giovane turco» Matteo Orfini, a richiesta dell'Unità, per il 'dopo' ha introdotto il tema (serio) della pericolosa «rottura del nesso fra premiership e leadership. Se Bersani diventa premier è anche perché è segretario del partito. Se stiamo europeizzando il sistema politico italiano non vedo perché il segretario non dovrebbe essere premier». Non è questione di poco conto: il Pd ne ha già fatto le spese nel 2008 nel duello Prodi-Veltroni. Il ragionamento di Orfini ha la conseguenza di stoppare le corse alla segreteria. Cui appunto sarebbe interessato Franceschini e Enrico Rossi, presidente della Toscana. Che però sbilancerebbe a sinistra. Ma per arrivare a questo capitolo non deve passare solo la nottata delle primarie, soprattutto quella del voto politici.
Arancioni (e rossi) in attesa
Al di là del lato destro della coalizione ci sono i radicali che in questi giorni discutono sull'appoggio a Renzi (lo ha annunciato Silvio Viale, lo hanno rimbrottato - ma non troppo - Pannella e Bonino). Al di qua del lato sinistro della coalizione, si aspetta al varco invece Nichi Vendola. Dal suo piazzamento, in combinato disposto con la legge elettorale, dipenderà l'ingresso in coalizione della nuova Idv post-dipietresca, che chiede di entrare, e del Pdci di Diliberto, che ha «congelato» la Federazione della sinistra per tornare al frontismo della sua formazione comunista e amendolíana. Ma il Prc di Paolo Ferrero non crede alla stabilità di questa coalizione e punta, anche lui, al 'dopo': «C'è un prima e un dopo le primarie. Auspico che Sel ci ripensi e costruisca con noi il polo dell'alternativa. Credo che molti elettori di Sel ma anche gran parte della sua classe dirigente rivedranno Moro giudizio quando si accorgeranno che dovranno fare i conti con una coalizione in cui ci sono Casini e Renzi». Stesso ragionamento che fa De Magistris, regista delle liste arancioni e pronto a annunciare un candidato premier il prossimo 12 dicembre. Cioè quando il rito delle primarie sarà compiuto fino in fondo, anche in caso del ballottaggio del 2 dicembre. Chi giura di non aspettare le primarie sono invece quelli di Alba e dell'appello «Cambiare si può», che infatti si sono convocati per il primo dicembre: «a prescindere» dall'eventuale ballottaggio. «Non siamo affatto appesi al centrosinistra e siamo molto più preoccupati dall'astensionismo e dal grillismo», spiega il fiorentino Massimo Torelli, «L'effetto-gazebo ci sarà. Ma sarà un altro: molti compagni che in buona fede avranno votato e creduto in quello spazio politico si renderanno conto che era solo una conta per la leadership, e non un voto per il cambiamento. E si rivolgeranno a chi, come noi, il cambiamento lo vuole davvero».
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