
Dev’esserci uno spazio praticabile, tra la valutazione - quale che essa sia - del significato di un’iniziativa politica e l’ineludibile senso di colpa nei confronti di un padre che rischia di creparsela. Dev’esserci uno spazio, dico, perché io mi ci ritrovo dentro da qualche ora e ne sto esplorando i contorni per scoprire dove comincia, dove finisce, cosa c’è dentro.
C’è, tanto per cominciare, l’intruglio tra fronte politico e piano personale che costituisce il marchio di fabbrica di ciascun radicale: e che rappresenta, per come la vedo io, la vera invenzione rivoluzionaria di Marco Pannella, quella che ha consentito a un partito grande uno sputo di tirar fuori da questo paese risultati inimmaginabili. L’abbiamo maledetta tutti, quell’invenzione. Più di una volta. Cene siamo sentiti vittime e abbiamo rimpianto il giorno in cui abbiamo messo piede a Torre Argentina. Ci siamo sentiti tutti, almeno una volta, strumentalizzati da quell’intruglio. Per poi accorgerci, subito dopo, che il confine tra essere strumentalizzati e farsi strumento è labile. Che forse quel confine non esiste, nella misura in cui la vita è fatta di cose che sfumano l’una dentro l’altra senza soluzione di continuità.
È così che nei momenti più imprevedibili siamo tornati a benedire quell’invenzione, che ha cambiato per sempre la nostra vita ed ha trasformato in persone diverse da quelle che eravamo. Io l’ho benedetta ogni volta che ho pescato da chissà dove il coraggio di dire quello che pensavo, la forza di spiegarlo per quanto sembrasse inutile; ogni volta che mi sono trovato immerso fino al collo in situazioni grottesche che avrebbero indotto chiunque a darsela a gambe e mi sono scoperto capace di guardarle, muovermici dentro, prenderle in mano e provare a farne qualcosa.
Dev’essere questo, lo spazio in cui sono. Lo spazio in cui politico e personale si intrecciano in modo inestricabile, al punto da non riuscire più a capire dove comincia l’uno e finisce l’altro. Lo spazio che Marco Pannella ha creato dal nulla, condannandoci a fare politica pure quando andiamo a pisciare e a sentirci dire, spesso e volentieri con più di una ragione, che non la facciamo mai. Che mi piaccia o no, è dentro quello spazio che mi ritrovo. E credo che in un modo o nell’altro non ne uscirò mai più.
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