
Buone notizie per il sociale: la Seconda Repubblica è finita. Quest'epoca - cominciata con le elezioni vinte da Prodi nel 1996 - termina, infatti, con il voto di domenica. Una stagione durante la quale la politica nazionale si è tenuta alla larga dai temi del welfare sociale, che toccano principalmente gli anziani non autosufficienti, le famiglie povere e la prima infanzia.
Negli ultimi decenni la domanda d'interventi pubblici nel settore è aumentata a causa dei profondi mutamenti sperimentati dalla società italiana, come l'invecchiamento della popolazione, l'incremento dei rischi di povertà e la crescita dell'occupazione femminile. Molti Comuni e varie Regioni hanno compiuto sforzi rilevanti nell'offrire le risposte, con riferimento alle rispettive competenze; si pensi, per esempio, all'aumento dei nidi (Comuni) e degli interventi rivolti agli anziani non autosufficienti (Regioni). Per fare di più ci sarebbero voluti robusti provvedimenti statali, ma la politica nazionale si è sinora comportata come se fossimo rimasti al 1980 e la realtà del Paese non fosse cambiata: ha continuato, dunque, a identificare il welfare con pensioni e ospedali.
Durante la Seconda Repubblica, i governi di centro-sinistra vi hanno dedicato maggiori risorse e più sforzi progettuali rispetto a quelli di centro-destra, ma nessuno ha portato a termine le riforme nazionali necessarie a consolidare il welfare sociale. La tabella sotto mostra che tra i Paesi simili al nostro - l'Europa centro-meridionale - solo Italia e Grecia non ne hanno realizzata alcuna.
Una misura nazionale destinata a tutte le famiglie povere, il reddito minimo, venne sperimentata in alcuni Comuni nel periodo 1999-2003, ma fu successivamente deciso di non introdurla; a partire da questa primavera una prestazione con un nome diverso ma con le medesime caratteristiche, la Nuova social card, sarà sperimentata nelle 12 città più grandi per un anno e poi non si sa cosa accadrà. Il maggior numero di atti e proposte senza esito ha riguardato la riforma dell'assistenza agli anziani non autosufficienti, da ultimo il Piano previsto in estate nella prima versione del decreto Balduzzi e poi abbandonato; tra i precedenti si ricordano il disegno di legge presentato dall'allora ministro Ferrero (secondo Governo Prodi, 2007) e la proposta della Commissione Onofri (primo Governo Prodi, 1997). La riforma per rafforzare i servizi alla prima infanzia, il Piano nidi, era stata effettivamente avviata dal centro-sinistra nel 2007, ma il centro-destra l'ha interrotta nel 2011.
I capisaldi delle riforme dovrebbero in ogni ambito essere tre, condivisi dagli altri Paesi europei.
Primo: l'incremento degli stanziamenti dal centro, accompagnato da regole che assicurino uno sforzo adeguato di Regioni e Comuni. Il welfare sociale cumula al tradizionale sottofinanziamento - da sempre le risorse pubbliche dedicate sono inferiori alla media europea - i tagli profondi subiti in questa legislatura. Bisogna, pertanto, ampliare la spesa e farlo in modo virtuoso, evitando cioè che, come accaduto in passato, Regioni e/o Comuni riducano i propri finanziamenti quando aumentano quelli statali.
Secondo: l'introduzione dei diritti sociali ora mancanti. In Italia, per esempio, le famiglie povere sono prive del diritto a un sostegno pubblico (il reddito minimo), diversamente da quanto accade all'estero. Allo stesso modo, mentre vige il diritto all'assistenza ospedaliera così non è per gli interventi pubblici (infermieristici, riabilitativi, igiene) a casa degli anziani non autosufficienti, che possono venir meno a discrezione dell'ente responsabile.
Terzo: il potenziamento dei servizi alla persona a fianco dei contributi economici, oggi dominanti. Ciò significa, tra l'altro, la possibilità per gli anziani e le loro famiglie di disporre di servizi d'informazione e consulenza oltre all'indennità di accompagnamento; lo sviluppo e il consolidamento degli asili nido; servizi di formazione per l'impiego o di altro tipo da integrare ai trasferimenti monetari nel contrasto alla povertà.
La necessità di riforme è oggi maggiore di ieri. Da una parte, l'esistenza di un adeguato pacchetto di diritti al welfare sociale avrebbe impedito i recenti tagli e proteggerebbe da rischi futuri. Dall'altra, i bisogni sperimentano una crescita costante (due dati: incremento della popolazione di 80 e più anni tra il 2000 e il 2020 = +85%; aumento degli individui in povertà assoluta tra il 2007 e il 2011 = +39%). Non a caso, mentre fino a qualche anno fa numerosi osservatori mostravano scarso interesse verso le riforme statali, ritenendole utili solo al meno sviluppato Sud, oggi è opinione condivisa che costituirebbero l'infrastruttura nazionale per il welfare locale senza la quale anche il Centro-Nord è destinato a difficoltà sempre maggiori.
Certo, nel prossimo futuro realizzare le riforme risulterà ben più difficile di quanto sarebbe stato nella Seconda Repubblica. In un'epoca di bilanci risicati bisognerà recuperare quei finanziamenti aggiuntivi non trovati durante un periodo di spesa pubblica in salita. Si dovranno, nondimeno, definire alcune regole condivise per un sistema che, negli ultimi 10-15 anni, è andato sempre più frammentandosi in una molteplicità di interventi diversi tra loro.
D'altronde, l'Italia non può fare a meno di incisive riforme del welfare sociale perché, se già le risposte attuali non tengono il passo con i bisogni, affrontarne l'atteso ulteriore incremento con l'attuale assetto significherebbe esporre a condizioni di crescente criticità numerose famiglie in povertà, tanti anziani non autosufficienti e molti nuclei con figli piccoli.
La sfida, in sintesi, è riuscire a compiere in uno scenario più complicato le necessarie riforme non attuate in un contesto maggiormente favorevole. Si tratta, a ben vedere, di una sfida che accomuna molte politiche pubbliche italiane. Benvenuti nella Terza Repubblica.
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