
Non è azzardato affermare che il destino dell’euro, quello dell’Europa economica e forse, più in generale, quello dell’Europa come entità politica, dipende da un triangolo tedesco. Oscilla, infatti, in questi giorni fra tre poli, tutti collocati in Germania. Il primo si trova a Francoforte; si tratta della bella e moderna Euro Tower, sede della Banca Centrale Europea (Bce), una cittadella della moneta che si staglia in un deserto istituzionale in cui non esiste un ministro europeo dell’Economia con il quale costruire una politica economica per il continente. La sua solitudine la pone al centro delle speranze e dei risentimenti sull’euro, della crisi europea, delle misure per uscirne e in particolare della creazione di nuova liquidità per sostenere i Paesi debitori, una linea d’azione fieramente avversata dai Paesi creditori e soprattutto dai tedeschi.
Entra così in scena il secondo polo che svolge in questi giorni un ruolo cruciale, anch’esso localizzato a Francoforte, a pochissimi chilometri di distanza dal primo. In un edificio esso pure imponente, che ricorda il passato più di quanto non suggerisca il futuro, ha sede la Bundesbank.
La mitica Banca centrale tedesca, un tempo ferrea custode del marco e della crescita senza inflazione, senza intromissioni governative e senza aiuti facili ad altri Paesi. L’istituzione dell’euro - che ha comportato la fine del marco le ha sottratto importanza e potere ma ha voce autorevole, e la usa con durezza, nel consiglio della Bce. La Bce è da anni sotto attacco della Bundesbank che le rimprovera sostanzialmente di non essere tedesca, ossia di non avere trasferito a livello europeo il rigore al quale il marco aveva abituato l’Europa. Non vorremmo naturalmente che la «purezza della razza» di infausta memoria abbia subito una metamorfosi trasformandosi in una sorta di «purezza della moneta».
In queste condizioni, il governatore della Bce, Mario Draghi, liberale più che liberista, ha rifiutato qualche giorno fa di andare alla super-riunione annuale dei banchieri centrali a Jackson Hole nelle Montagne Rocciose, riservando la descrizione del suo progetto di politica monetaria e finanziaria alla riunione a porte chiuse della commissione Affari Economici e Monetari del Parlamento europeo. Il senso generale del suo discorso è naturalmente trapelato e ha rincuorato - si spera in maniera non prematura come successe meno di due mesi fa - le Borse europee.
I dettagli, importantissimi in questi casi, non sono naturalmente noti ma appare chiaro che Draghi si sta muovendo all’insegna del pragmatismo, in marcato contrasto con il dogmatismo della Bundesbank. Draghi ha indicato un limite di durata di tre anni, sotto il quale le operazioni di acquisto di titoli di uno Stato in difficoltà non deve essere configurato come finanziamento ma come semplice operazione di tesoreria. E’ sottinteso che Draghi, con questo, non vuole acquistare tonnellate di «Bonos» spagnoli, così come si è detto contrario a dare all’Esm, il nascente «fondo salva-Stati», le funzioni di una banca; vuole piuttosto ritagliarsi una certa libertà d’azione in modo da non dover chiedere a ogni operazione il permesso dei tedeschi.
Forse proprio per questo, magari anche in nome di una nostalgia storica per il marco, il governatore della Bundesbank, Jens Weidmann, fautore di un liberismo allo stato quasi puro - che vede come un grave errore qualsiasi politica attiva della Banca Centrale Europea - ha minacciato le dimissioni, temporaneamente arginate dal Cancelliere Merkel. Il suo predecessore, Alex Weber, si era dimesso per lo stesso motivo nell’aprile 2011.
Molto spesso, come scrisse Keynes ottant’anni fa, chi fa politica crede di essere libero di decidere ma in realtà è prigioniero di qualche economista defunto. In questo caso, Draghi si rifà a Franco Modigliani e all’ancora attivo Bob Solow, i premi Nobel con i quali ha studiato in America negli Anni Settanta, fautori di un liberalismo che non escludeva certo interventi delle istituzioni economiche. Weidmann, invece, è l’erede di una tradizione liberista dura e pura, più vicina al liberismo francese degli Anni Ottanta che alle storiche dottrine dei democristiani tedeschi, come l’«economia sociale di mercato». Naturalmente le Borse hanno salutato l’apparente vittoria di Draghi: sperano nell’allontanamento del tormentone dei debiti pubblici e quindi in un po’ di ossigeno con il quale cercare di compiere qualche passo sulla lunga strada dell’uscita dalla crisi.
Perché, al momento attuale, la vittoria di Draghi è ancora soltanto apparente? Per rispondere a questa domanda dobbiamo tirare in ballo il terzo polo di questa vicenda largamente tedesca che tocca tutti gli europei. Il terzo polo non sta nella metropoli di Francoforte ma centocinquanta chilometri più a Sud, nella piccola città di Karlsruhe, circa trecentomila abitanti. Qui si trova il piccolo, moderno e arioso edificio della Corte Costituzionale tedesca, ai vertici della struttura pubblica tedesca e sarà questo tribunale tedesco a prendere, entro una decina di giorni, una decisione che, di fatto, potrà determinare le sorti dell’Europa.
La Corte dirà infatti se i trattati internazionali in base ai quali risorse finanziarie pubbliche tedesche vengono utilizzate per aiutare Paesi esteri in difficoltà sono o non sono conformi alla Costituzione tedesca. Otto giudici in solenni toghe rosse diranno un «sì» o un «no» che avrà in ogni caso ripercussioni radicali sulle Borse, sull’economia, sui governi del nostro continente.
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