
Tutti appesi fino a notte alta all’ultima sezione del Lazio e del Piemonte, le due regioni che possono fare la differenza tra trionfo e debacle.
Al netto dei casi Bonino e Bresso, il voto di ieri consegna comunque a Pierluigi Bersani una situazione assai complicata. Il Pd perde voti, la strategia delle alleanze (che guardava all’Udc innanzitutto) va rivista, perché i centristi influenzano poco o nulla il risultato: «L’unico posto dove son serviti a qualcosa è la Puglia, dove sono andati soli», allarga le braccia Peppe Fioroni. E soprattutto il quadro geografico-elettorale del centrosinistra potrebbe diventare da allarme rosso, se le cose precipitassero: se si perde il Piemonte, il Pd «non tocca palla in tutto il Nord», come fa notare Pierluigi Castagnetti.
Nel Sud si perde la Calabria, ma soprattutto il grande serbatoio di voti della Campania (e nel Pd c’è chi punta il dito su Antonio Bassolino, che non si sarebbe troppo dato da fare per il suo arcinemico De Luca); al Centro si rischia il Lazio: «Se ci presentiamo così alle prossime politiche siamo fritti», fanno notare dalla minoranza. Ma persino dalle roccaforti delle regioni rosse arrivano segnali allarmanti: in Emilia Romagna la lista Grillo, col giovane candidato presidente Giovanni Favia, incassa un clamoroso 7%, soprattutto ai danni del Pd, che paga quello che qualche maligno definisce «l’effetto Prodi», ossia le clamorose dimissioni da sindaco di Bologna del pupillo del Professore, Fabio Delbono.
Le percentuali nazionali del Pd, attorno al 26%, non si sollevano dal dato (negativo) delle Europee dell’anno passato, anche se lo stato maggiore del partito prova a smorzare il dato: «Per il Pd si tratta di un avanzamento, se si considera che in 7 regioni su 13 erano presenti liste del candidato Presidente, del Pd e Liste civiche collegate al Pd», spiega il coordinatore della segreteria Maurizio Migliavacca.
«Se l’astensionismo ha dato un ceffone al Pdl, a noi ha dato una bella sberla», commenta amaro Peppe Fioroni. E a metà pomeriggio, mentre arrivano i primi risultati, anche Massimo D’Alema avverte che sta per arrivare la botta: «Era stato previsto un aumento del non voto di 3 0 4 punti. Se invece diventano 7 0 8 è ovvio che non colpisce solo il Pdl». Il presidente dei Copasir è pessimista: «Un Paese dove a vincere sono la Lega, l’astensionismo e Beppe Grillo qualcosa non va».
L’unico che ieri pomeriggio, pur declinando cortesemente ogni commento, non tratteneva un mezzo sorriso, nei corridoi del palazzetto del Nazareno, era Walter Veltroni: come fa notare Ermete Realacci, dirigente che gli fu vicinissimo nei mesi di segreteria Pd, «ormai è evidente che il risultato che ottenne Walter alle Politiche del 2008, oltre il 33%, è irripetibile». Comprensibile che l’exleader, oggi in minoranza, ne vada orgoglioso. Ma quel pudico sorriso veltroniano indica che in casa ex Ppi intanto si scalpita: «C’è un chiaro problema politico che dobbiamo affrontare», avverte Fioroni, «perché con questo bipolarismo noi siamo in balìa del primo che si alza e presenta la sua lista. E allora dobbiamo chiederci se questa forma partito, questo Pd, sia in grado di intercettare le aspettative degli elettori». Un altro mariniano è ancora più chiaro: «Questo voto dimostra che un Pd che si caratterizza come partito di sinistra liberal non funziona: o si dà una chiara identità di centro, oppure tanto vale decidere di separarci di comune accordo e fare due partiti, per intercettare i voti moderati». L’ala cattolica scalpita, Veltroni tace, Fioroni assicura che «la questione non è di nomi e di segretari: Bersani è bravissimo, ma il problema politico resta tutto». Ma se davvero Piemonte e Lazio saltano, i contraccolpi dentro il Pd ci saranno eccome. E qualcuno teme che possa partire un «effetto centrifugo», dal Settentrione (con un Sergio Chiamparino dato quasi in uscita, che carezza con Massimo Cacciari il sogno di un «partito del Nord») al Sud di un Bassolino pronto al redde rationem con il partito da cui si è sentito scaricato
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