
27/10/10
Corriere della Sera
«Se gli americani attaccheranno moriremo con il fucile in mano», diceva Tareq Aziz con lo sguardo stanco e l'eterno sigaro tra le dita nei giorni appena prima la guerra del marzo 2003 e alla vigila del suo ultimo viaggio da Papa Giovanni Paolo II. Stanco, eppure controllato, parlava di morte, ma cercava una via d'uscita a tutti i costi, lui che era definito il «volto presentabile di Saddam Hussein».
Ieri aveva lo sguardo perso nell'aula dell'Alto Tribunale di Baghdad mentre ascoltava la sua condanna a morte. Per impiccagione, come è avvenuto negli anni scorsi per Saddam e una decina di altri dirigenti del vecchio regime baathista. La formula della sentenza ègenerica: accusato di avere partecipato alla «persecuzione dei partiti religiosi», con riferimento ovvio all'opposizione sciita massacrata senza pietà nel quasi trentennio della dittatura. Camicia azzurra spiegazzata, apparecchi acustici per i suoi 74 anni portati male e peggiorati dagli acciacchi della lunga prigionia, Aziz a tratti ha appoggiato la fronte al banco, disperato, perduto.
I suoi avvocati promettono battaglia. Tornano a puntare sull'identità religiosa di Aziz e sulla sua immagine di baathista dal volto presentabile: cattolico caldeo, ex ministro degli Esteri iracheno al tempo dell'invasione del Kuwait nel 1990 e poi della prima Guerra del Golfo. Tanti media occidentali nelle settimane convulse durante l'attacco anglo-americano nel 2003 pensarono sino all'ultimo che lui, approfittando della confusione, avrebbe tradito Saddam. Invece non fu così. Sì consegnò però spontaneamente due settimane dopo l'irruzione dei Marines nella capitale.
Alcuni mesi fa venne consegnato dagli americani alla polizia irachena. Un momento delicatissimo per il Paese. Dalle elezioni di marzo ancora non c'è un governo.
Le unità combattenti americane si sono ritirate a fine agosto. Restano circa 49 mila soldati Usa con compiti per lo più di addestramento del nuovo esercito iracheno. Ora si parla di un compromesso tra il fronte sciita del premier Nouri Al Maliki e i partiti curdi. I sunniti però si sentono traditi, accusano l'Iran d'interferenze pesanti. Il loro candidato, Yiad Allawi, ha ottenuto un risultato migliore di Maliki. Eppure non riescono a costruire la maggioranza. Il rischio è che tornino al terrorismo. Anche il 44enne primogenito del condannato, Ziad Aziz, legge la persecuzione di suo padre come un nuovo, grave segnale di destabilizzazione interno.
«La verità è che Maliki, i suoi padrini a Teheran assieme agli esponenti del vecchio partito sciita Dawa vogliono vendicarsi. Provarono ad assassinare mio padre nel 1980. Ora hanno il coltello dalla parte del manico e non se lo lasciano scappare. Lo uccideranno. Non ci sono dubbi. Avevano promesso che avrebbero rinunciato alle violenze della debaathificazione. Ma non è vero. Sono uomini faziosi, legati a piccole logiche di faide religiose. Non possono far altro che trascinare il Paese nel caos», ci dice sconsolato per telefono dal suo esilio ad Amman, dove sono rifugiati tanti membri dell'antica nomenklatura legata a Saddam. La madre, Violet, si trova in Yemen. «Anche lei non sa più cosa fare. In passato ha provato a chiedere solidarietà in Vaticano, a Roma, Parigi e altre capitali europee. Ma senza esito», aggiunge.
Ziad Aziz resta scettico nel sentire che Catherine Ashton, Alta Rappresentante per la politica estera europea, ha già chiesto a Baghdad di cambiare la sentenza. «Tre anni fa incontrai alcuni alti esponenti della Santa Sede a Pescara per cercare di arrivare al Santo Padre e lanciare un nuovo appello internazionale. Ma fu inutile. Noi cristiani del Medio Oriente possiamo contare sul loro sostegno solo a parole», commenta. Eppure qualche fatto arriva. Le proteste della comunità internazionale stanno crescendo. Il presidente Napolitano e il ministro degli Esteri Frattini hanno tra gli altri ribadito appieno la loro condanna della sentenza di morte. Anche il portavoce della Sala Stampa Vaticana, Federico Lombardi. ha ricordato che l'esecuzione di Tareq Aziz impedirebbe «la riconciliazione dell'Iraq». E Marco Pannella ha aggiunto lo sciopero della sete a quello della fame che aveva iniziato oltre venti giorni fa.
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