
La Cina è un argomento centrale della campagna elettorale statunitense. La corsa alla Casa Bianca si arricchisce di un tema complesso, delicato ed in grado da solo di spostare i voti necessari per conquistare la presidenza. Lo rivelano due sondaggi commissionati dai partiti democratico e repubblicano che descrivono un elettorato «preoccupato o molto preoccupato» per la perdita di posti di lavoro a causa della Cina.
Le due rilevazioni concordemente stimano che il 63 per cento dei votanti richiede misure più risolute contro Pechino per proteggere gli interessi economici nazionali. Un tale bacino attira chiaramente l’attenzione dei guru delle campagne elettorali. Con una disoccupazione intorno all’8 per cento e una ripresa che stenta ad affermarsi, l’economia sarà il nodo più contorto che Obama dovrà sciogliere se vorrà essere rieletto. Ecco perché il suo staff martella l’opinione pubblica sul ruolo che Mitt Romney ha avuto nel suggerire – nella sua precedente carriera come consulente di Bain – il trasferimento di produzioni in Cina. Secondo gli strateghi di Obama, questo atteggiamento ha causato la chiusura di fabbriche ed un progressivo impoverimento del paese, a beneficio soltanto delle multinazionali.
Benzina sul fuoco arriva inoltre dalla scoperta che le divise della squadra olimpica americana sono state prodotte in Cina. Disegnate da Ralph Lauren, con il simbolo del giocatore di polo sull’elegante abbinamento dei colori nazionali rosso e blu, sono state commissionate ad una fabbrica del Dragone. Le reazioni sono state forti, al punto da indurre lo stilista a promettere che le divise per i giochi invernali del 2014 – per le quali è stato ugualmente incaricato – saranno interamente Made in Usa.
Pur se l’elezione di novembre sarà decisa da un pugno di voti, il dibattito sulla Cina negli Stati Uniti sembra sfuocato, come se sia necessario raccontare solo una parte della storia per attirare il consenso elettorale. Quattro anni fa, all’inizio della crisi, Obama sosteneva una posizione ferma verso la Cina. Ne denunciava i pericoli e ne paventava la crescita a scapito degli Stati Uniti. I lavoratori e i sindacati – pilastri della sua base elettorale – si opponevano al trasferimento della manifattura a Oriente. Insieme a loro, alzavano la voce i settori più colti del partito: gli attivisti dei diritti umani, le élite intellettuali, la classe media delle metropoli. La loro opposizione alla Cina si basava sulla mancanza di libertà, sulla violazione degli standard lavorativi, sulla mancata riforma del sistema politico.
Questa miscela di argomenti è stata trascurata da Obama dopo la vittoria nel 2008. Sono riemerse posizioni più pragmatiche e ineludibili: l’uscita dalla crisi, la sicurezza, la politica internazionale. In poche settimane la Cina si è trasformata da antagonista a partner. La gestione di una situazione oggettivamente difficile per gli Stati Uniti ha suggerito la trattativa alla propaganda. Le frizioni più rischiose – il Tibet, la disputa nel Mar Cinese Meridionale, i ricorsi all’Organizzazione mondiale per il commercio (Wto), la manipolazione dei tassi di cambio della valuta cinese, il renminbi – sono state accantonate o ridimensionate. Ora però stanno riemergendo, perché il voto si avvicina.
I due partiti fanno a gara per prospettare scelte più severe verso Pechino e mettono da parte ogni loro identità ideologica. I Repubblicani vedono sbiadire la lobby taiwanese, tradizionale loro alleata e oggi sempre meno potente, mentre i Democratici mostrano i muscoli per non lasciare alle grandi aziende la gestione dei rapporti con Pechino. La Casa Bianca sa da tempo che le multinazionali sono le migliori alleate della Cina. Sullo sfondo permane un’ironia eccentrica. Il paese più liberista al mondo, culla della libertà d’impresa e della sovranità del consumatore, vuole ostacolare la libera circolazione delle merci, ricorrendo a misure tariffarie e normative.
Al contrario, una potenza formalmente comunista invoca l’assenza di barriere doganali, la rimozione degli ostacoli, il pieno dispiegarsi della filosofia liberista del Wto e della Banca mondiale. Sarebbe meglio studiare questa bizzarria, ma l’impellenza degli spot televisivi suggerisce altri temi. Ce ne occuperemo fino al 6 novembre, quando il presidente – chiunque egli sia – tornerà a interessarsi alla globalizzazione e non alle divise degli atleti olimpici.
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