
07/12/10
Il Foglio
Persino a me, e persino a questa rubrica può accadere di essere tentati dalla seduzione del terzismo. Almeno quello metodologico. E, davanti a una controversia etica ridotta al clangore ferrigno delle scimitarre ideologiche, persino a me e persino a questa rubrica può succedere di invocare un confronto equilibrato e rispettoso. A partire dal presupposto, ad esempio, che possa essere un atto d’amore l’infinita cura assicurata al paziente in coma per l’intera durata della sua agonia e di ciò che resta della sua esistenza: ma può essere un atto d’amore anche la disponibilità a "lasciarlo andare", seguendo il corso naturale della vita e del suo esaurirsi, sottraendo quel corpo alla costrizione dell’accanimento terapeutico e ai presidi artificiali della tecno medicina.
Chi immagina che ciò sia possibile e che vi sia, dunque, una pluralità di concezioni della vita e della morte e che tutte possano essere "umane troppo umane", e degne di attenzione, rischia di rimanere deluso. Chi ritiene che ciascuna di quelle concezioni contenga una sua - seppur fragile e parziale - verità e che ciò non corrisponda a un qualche consumistico relativismo etico, rischia di sbattere il muso contro crudeli smentite. Che possono assumere la forma di soavi brutalità, come nelle parole della parlamentare dell’Udc Paola Binetti. Qui è opportuna una parentesi. Paola Binetti, per qualche anno, ha militato nella mia stessa formazione politica, il Partito democratico, inducendomi al delirio amoroso del grido: non posso vivere senza la Binetti! Quel bisogno di convivenza politica, seppur travagliatissima, aveva più di una ragione. Contrariamente al parere di quasi tutti, ritenevo, infatti, che le sue posizioni, sideralmente lontane dalle mie, su alcune problematiche etiche sollevassero questioni controverse che non potevo e non posso ignorare; e perché ritenevo che quelle stesse posizioni facessero parte di una complessiva cultura democratica che non può essere mutilata o censurata in alcuna sua componente; e perché ritenevo, infine, che quelle posizioni "temprassero" le mie, le sottoponessero a verifica, le inducessero a farsi più intelligenti e sensibili.
Da qui quel mio grido. Ma poi, nel febbraio scorso, la Binetti decideva unilateralmente di congedarsi da me e dal Pd e di aderire all’Udc. Ma - lo dico col massimo rispetto - la sua nuova militanza politica sembra aver perso quella salienza che pure, in passato, aveva avuto; e sembra aver acquisito una sorta di devota supponenza, persino superiore a quella già precedentemente mostrata. È accaduto così che, intervenendo alla Camera a proposito del suicidio di Mario Monicelli, si sia espressa letteralmente nei seguenti termini: "Persona anziana e sola... aveva interrotto i rapporti con i familiari e con gli amici... è morto solo... perché lo hanno lasciato solo i suoi amici... gesto di disperazione... gesto di solitudine... quanto era depresso... profondo senso di smarrimento esistenziale... la solitudine di uomo... la disperazione di un uomo... Questi sono uomini disperati… È un gesto di solitudine, di smarrimento". Tutto ciò in poche righe, nel corso di un intervento lungo meno della metà dell’articolo che state leggendo. Una sbalorditiva orazione funebre, che contiene pure questa singolare diagnosi: "Problemi di tipo probabilmente clinico, urologico". Un sermone degno di una cupa concezione del cattolicesimo come sistema penitenziale e sacrificale, punitivo e mortificatorio, più che di un’idea misericordiosa dell’altro: ovvero di se stessi. E nemmeno si può dire, in questo caso, che la Binetti sia stata "provocata": lo "spot per l’eutanasia" attribuito a Rita Bernardini è stato in realtà un brevissimo intervento che la deputata radicale (capace anche di toni assai aspri) aveva sviluppato con notevole delicatezza. Dunque, dietro quell’irriguardosa anamnesi della "crisi di Monicelli", fatta di psicologismo da dispense per edicola e di introspezione da "La vita in diretta", c’è qualcosa di assai sgradevole, oltre che una mondanissima vanità. C’è il vittimismo religioso che si fa arroganza teologica e c’è l’evangelico "non giudicate" che si traduce in una sorta di giustizialismo parrocchiale e pettegolo e in un moralismo profano e laicista. Che giudica impietosamente le relazioni familiari e i rapporti sociali, gli stili di vita e le opzioni morali, secondo una interpretazione gretta di un Catechismo ridotto a prontuario e a manualistica. E a ispirare ciò - o almeno così sembra - c’è il vizio capitale della Superbia, "fonte di tutti i peccati". All’Inferno, all’Inferno!
© 2010 Il Foglio. Tutti i diritti riservati