
L’autorità di bilancio della capi, tale economica del Paese - il Consiglio comunale di Milano predisporrà il bilancio preventivo 2013 del Comune a fine settembre 2013. Il «preventivo» sarà un «consuntivo». Nel frattempo, 47 suoi componenti su 48 (escluso il sindaco) non hanno ricevuto nemmeno un documento con delle cifre, né sulla proposta che la Giunta Pisapia predisporrà, né sui soldi già spesi. Se è vero che i Parlamenti sono nati sui bilanci - fu la Magna Carta del 1215 a vietare al sovrano di imporre nuove tasse senza il consenso del «commune consilium regni» - la proroga governativa da giugno a fine settembre della scadenza per i preventivi comunali è una spia del degrado della vita democratica. Approvare a settembre un bilancio già speso per nove dodicesimi significa rinunciare ad esprimere (pubblicamente!) indirizzi strategici di spesa, riducendosi alla navigazione a vista tra gli scogli della crisi e degli ordini e contrordini impartiti da Roma.
La responsabilità di quanto accade è in buona parte dello Stato nazionale. Stravolgendo in continuazione il quadro normativo su imposte come l’Imu, getta nell’incertezza le amministrazioni locali. Pretendere però di governare tale incertezza ritardando la preparazione dei bilanci aggrava le difficoltà, con conseguenze lesive della vita democratica. La logica emergenzialista del fatto compiuto sottrae ogni potere e conoscenza alle persone elette dai cittadini per decidere sull’uso delle risorse pubbliche. La retorica del «bilancio partecipato» - per il quale è necessario un coinvolgimento dei cittadini alimentato da dati chiari e disponibili in anticipo - si scontra con una realtà dove nemmeno i 48 (meno uno) componenti del Consiglio comunale «partecipano», se non per le vie interne dei rapporti con gli «uffici» o nelle dichiarazioni basate su indiscrezioni che trapelano dagli assessorati.
Qualcuno vorrà consolarsi pensando che il metodo non è tutto, e che il fine di far quadrare i conti giustifica il mezzo di un processo decisionale a-democratico. Da radicale, sono convinto che un pessimo metodo non possa che determinare risultati scadenti. Ne è un caso se dati’ attuale dibattito sui conti milanesi sono rimosse le partite determinanti per il futuro della città. Ci si infiamma e si polemizza sui ritocchi delle tariffe e delle addizionali, ma sono scomparse dal dibattito le strategie sulle risorse vere, quelle patrimoniali: sul debito, gli investimenti, il futuro delle aziende partecipate. Così facendo, sono proprio le parole d’ordine della Giunta «arancione», come la valorizzazione dei «beni comuni», a rimanere svuotate di sostanza. La promozione delle risorse ambientali e culturali, del welfare e della formazione, non è affrontata nell’ambito di una strategia (pubblica!) di investimenti di lungo periodo, ma è relegata alla gestione settoriale di ciascuna unità amministrativa. In questo modo, Milano è privata di un confronto, ad esempio, sull’opportunità che uno tra i Comuni più indebitati d’Italia mantenga gli investimenti nel settore aeroportuale; oppure su quali debbano essere i servizi pubblici garantiti dal Comune, e se lo strumento più efficace per garantirli sia la proprietà comunale delle imprese o siano contratti di servizio aperti al mercato e alla concorrenza.
Il luogo giusto per discuterne è il Consiglio comunale. Restituendo al Consiglio i poteri effettivi di bilancio, Pisapia aiuterebbe la logica delle idee a prevalere su quella delle cose. Magari otterrebbe anche il risultato di responsabilizzare un’opposizione che finora si è limitata a vivacchiare sul malcontento delle corporazioni e delle vittime della crisi, senza però esprimere alcun progetto liberale.
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