
Non è possibile scegliere la morte dinanzi a un problema economico", lamenta Saviano nel programma con Fazio su La7, affrontando il tema dei suicidi. Bene, bravi, bis. Il duo da ascolti record rivendica il successo di una tv fatta di parole, e di contenuti. Ancora bene, ancora bravi, ancora bis. Ma se sono solo parole… allora è giocare facile, è fingere attenzione e commozione senza alcuna sostanza dietro. Il tema della morte, la tragedia della rinuncia alla vita, lo scenario di una crisi devastante e dell'isolamento in cui le persone oggi si trovano, beh, è qualcosa che va trattato quanto meno con le pinze. Non è possibile scegliere la morte mai, questo andrebbe detto. E non è possibile abbandonare persone alla solitudine e alla disperazione tanto che finiscono per preferire innaturalmente la morte. Ma attenzione: soprattutto se l'approccio è parziale e "alla moda", il rischio è usare un tema drammatico e delicatissimo per fare ascolti e successo, ma senza avvicinare di un briciolo il problema alla soluzione. Non voglio dire che questo sia il caso che rispecchia completamente "Quello che (non) ho", sequel di "Vieni via con me". Certo però il ricco velo di osanna che circonda a priori e a prescindere il programma rende più difficile distinguere davvero la sostanza che c'è dietro, se c'è. Con la pretesa (e forse la supponenza) di essere gli unici profeti, gli unici che dicono la verità, gli unici che affrontano temi scomodi, gli unici che vanno in profondità. E con troppo spesso invece la realtà di essere solamente i portabandiera del politicamente corretto, della corrente principale di una pubblica opinione omogeneizzata su certi approcci radical-chic di massa. Benissimo quindi quando si ha il coraggio di squarciare il tema delle mafie, forse un po'meno bene quando si affrontano con lo stesso piglio pretenzioso e predicatorio temi come la vita e il suo senso. Come non essere d'accordo quando si compiangono i suicidi, si invoca lo sforzo per evitarli, si deplora i problemi economici che conducono alla disperazione. È facile avere il consenso su questo, e stavolta non è neanche una novità. Ma poi? Quale è la soluzione? Bene l'invito allo Stato a creare strutture di supporto, aiuto, consulenza. Lasciamo magari da parte il fatto che almeno in teoria quell'Equitalia che invece è di moda esecrare servirebbe anche a questo, e quei dipendenti che vengono minacciati nell'indifferenza se non nella complicità generale, compresa quella dei benpensanti politicamente corretti, quei dipendenti avrebbero anche il compito di aiutare i cittadini a fare piani di rientro, a trovare soluzioni, a ottenere rateizzazioni adeguate per pagare un debito che in quanto tale va pagato. Lasciamo da parte questo e facciamo lo sforzo di prendere per buono lo stimolo e l'impegno dei celebri conduttori. A questo punto però se va presa sul serio la riflessione allora non può morire là, va approfondita. E viene spontaneo ricordare quanto è successo lo scorso anno nella trasmissione della Rai. Fazio e Saviano montarono un'apologia del diritto ad uccidersi, esaltando i casi Welby ed Englaro. Cosa ancor più grave, nel loro tono apodittico, rifiutarono esplicitamente e fermamente di dare spazio a voci di segno opposto, alle associazioni dei familiari che i malati terminali li assistono, li curano, li affiancano nel loro percorso finale di vita. A chi voleva solo dire che la vita va rispettata, aiutata, sostenuta, amata. Due pesi e due misure. Per le luci della tv quindi non è la vita di difendere, non è il suicidio da prevenire. Non c'è vero approfondimento, non c'è coraggio della verità. Guardiamo dentro questi drammi, e scopriamo per prima cosa che bisogna avere un grande rispetto, una grande comprensione, una enorme compassione. Solo da qui si può partire, da un rispetto doloroso e silente. Ma non inattivo. E la prima riflessione che va fatta è che i suicidi, tutti i suicidi, hanno qualcosa in comune. Alla radice non c'è distinzione tra i disperati per malattia e i disperati per crisi economica. Il punto del suicidio è sempre la disperazione. Sempre l'essere soverchiati dalla sensazione di non farcela, di essere di peso e al contempo di essere soli di fronte a un male schiacciante e invincibile. Questo non è diverso se si è malati destinati a morire: tutti abbiamo dentro di noi un conto alla rovescia più o meno lungo. Allora la coerenza vuole che o si rispetta sempre un presunto diritto ad abbandonare la lotta, qualsiasi lotta, che sia biologica o socio-economica, oppure si comprende che c'è un senso per la vita, e che quindi porvi fine non è mai una soluzione ma solo una sconfitta. Come si fa a non provare pietà e anche un senso di comprensione rispetto ai malati gravi che vogliono porre fine alle loro sofferenze? E analogamente come si a non provare altrettanta pietà e comprensione per chi si sente sconfitto e schiacciato dalla vita e pensa di non poter più andare avanti, e magari prova vergogna e rimorso per aver fallito, per non essere più in grado di contribuire al mantenimento proprio, dei propri cari e magari dei propri dipendenti? Comprensione, sgomento, pietà, rispetto. Mamai resa, mai abbandono, mai complicità col male. Così come per chi precipita nella crisi economica bisogna farsi carico di un sistema che lo riporti a galla, lo stesso identico principio deve valere per chi cade nel gorgo della malattia. L'uomo e le istituzioni che da esso emanano devono essere sempre dalla parte della vita, di chi lotta per andare avanti. Mai dalla parte della rassegnazione e della fuga. Il punto è ricostruire le relazioni tra le persone, i sistemi di sostegno, tutto quello che aiuta a portare avanti la vita anche quando si fa difficile. Nella consapevolezza che anche la morte fa parte della vita, ma arriva da sola, senza che lo Stato si erga ad arbitro e a complice. La discriminante non è e non può essere utilitaristica: non si può pensare che i malati possono essere eliminati perché sono un peso, un problema, mentre le persone sane devono essere salvate e magari riportate ad essere produttive. Non si può risolvere il problema del "suicidio per crisi" dando una seconda possibilità economica e basta, e poi se va male anche quella che si fa? Non è un bilancio economico che può decidere della vita e della morte. Non è un bilancio che va male che può giustificare l'eliminazione di una vita, ma non è neanche una valutazione utilitaristica che può decidere di collaborare all'eliminazione di alcuni e di prodigarsi per la salvezza di altri. Forse questa strisciante idea della "vita di degna di essere vissuta" è altrettanto responsabile dei recenti suicidi di quanto lo sia la crisi. Anche perché gli stessi dati dimostrano che i suicidi non sono mai determinati davvero dalla crisi, quanto da un più profondo disagio personale e sociale, da un senso di abbandono e di impotenza. L'incoerenza di certe posizioni politicamente corrette e radical-chic del pensiero alla Fazio e alla Saviano può essere evidenziato anche portando alle estreme conseguenze un certo ragionamento: uno spietato darwinismo sociale potrebbe giustificare ampiamente l'eliminazione dei soggetti più deboli e quindi controproducenti per la società, e questo può valere indistintamente per i malati gravi come per i falliti. Se grazie al cielo non si arriva a pensare tanto, forse questo deve essere da spunto per guardare più in profondità nel cuore e capire che la vita ha un valore in sé, che l'uomo non può essere misurato solo su criteri economici, utilitaristici, funzionali, di efficienza fisica. La vita è un mistero che va oltre tutto questo, un mistero davanti al quale bisogna avere il coraggio di fermarsi. Che non si può mai, in nessun caso assumere il diritto di decidere se troncarla o farla procedere. Che lo Stato, la società non possono mai essere complici di questa estrema disperata eventuale decisione di un singolo. Non ci può essere il benestare pubblico, il via libera, addirittura l'aiuto nella scelta di morte. Bisogna sempre stare dalla parte della vita. Noi, essere umani singoli e sociali, noi associati nelle istituzioni, dobbiamo sforzarci personalmente e comunitariamente di creare sempre le condizioni per lo sviluppo della vita, per il recupero delle persone in difficoltà, per far sentire tutti parte di una realtà solidale e di amore. Nessuna fuga, nessuna rottura delle responsabilità che ciascuno di noi ha verso gli altri può essere legittimata. Ogni suicidio non rappresenta il fallimento della persona che rinuncia alla vita, ma è il fallimento di una società, di una comunità intera che non è riuscita a far capire quanto era preziosa quella vita. In questa direzione dobbiamo camminare, senza mai mostrare cedimenti alla rassegnazione che qualche vita, nella complicità generale, possa essere lasciata scivolare via.
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