
23/04/10
Il Giornale
Arriva il giorno della resa dei conti. Parla l’incompreso e ci si aspetta un chiarimento. Finalmente si capirà cosa vuole, dove vuole andare o dove vuole tornare. Ogni sua frase comincia così: «Non per polemizzare». In realtà Fini non fa che polemizzare. Non gli va più a genio neanche il programma di governo: è roba scritta in altra epoca, bisogna aggiornare. Non gli passa per la mente che nel 2008 gli italiani votarono centrodestra proprio sulla base di quel programma, che quindi occorre realizzarlo per mantenere fede agli impegni, e che non può essere cambiato solo perché a lui non piace più.
Fini ce l’ha con la Lega. Non digerisce Bossi e neppure suo figlio Trota perché ha dichiarato in una intervista di non tifare per la Nazionale di calcio, di detestare la droga e di non aspirare ad esperienze omosessuali.
Fini si erge a paladino delle regioni povere del Mezzogiorno e respinge il federalismo fiscale temendone i decreti attuativi, cioè le modalità di applicazione. Insomma non digerisce nulla del Pdl. Pretende più democrazia, chiede di discutere, dibattere, confrontarsi. Le consuete lagnanze generiche e pretestuose ruminate mille volte e che tradiscono l’inconfessato obiettivo: istituire una sorta di diarchia ai vertici del Pdl impersonata - generosa concessione - da Berlusconi e da lui stesso, Fini.
Quando il premier gli fa presente che se lui intende fare politica attiva non gli resta che dimettersi dalla presidenza della Camera e dedicarsi al partito, il dissidente esprime il terrore di essere cacciato. L’attaccamento alla cadrega c’è. Fini tocca il fondo quando sfoga la propria antipatia verso il Giornale colpevole di aver colto sei mesi orsono le sue contraddizioni e di averle proposte quale argomento giornalistico di attualità. Si sa che vorrebbe la mia testa, ma in pubblico non osa dirlo apertamente. Lo fa capire. Il suo discorso è povero di contenuti politici e zeppo di risentimenti e malumori. Emerge una frustrazione dolorosa dovuta forse alla sua perdita di potere sugli uomini di An confluiti nel Pdl, i quali in maggioranza non riconoscono più Gianfranco come leader e lo hanno abbandonato, preferendogli il Cavaliere. Umanamente serve comprenderlo.
Fini era abituato ad essere il numero uno e ora è uno dei tanti nel partito: non può essere contento. Soprattutto non è contento di costatare che Berlusconi vince le elezioni anche senza di lui, o nonostante lui. È seccato di non essere stato designato successore del capo. Non è abbastanza contento del proprio ruolo istituzionale. Non è contento e amen. Gli uomini non sono mai contenti per oltre dieci minuti e cercano ogni giorno motivi di soddisfazione sia pure parziale. Fini non riesce a trovarne e se la prende con tutti anziché con se medesimo. Questa è una storia penosa, più psicoanalitica che politica. Il presidente della Camera è sofferente come si evince anche dal suo eloquio non fluido quanto in passato,
bensì nevrotico e saltabeccante al punto da risultare dispersivo, mai convincente. Siamo di fronte a un fenomeno nuovo, quello di una persona che non sa quello che vuole ma lo vuole tenacemente a costo di rompere col proprio passato, di litigare col presente e di pregiudicarsi il futuro. La Direzione del Pdl ha ascoltato le peripezie verbali di Fini con un certo imbarazzo appena dissimulato. Pochi e stenterelli gli applausi per lui. Decisamente fragorosi per Berlusconi che si è impegnato a reprimere l’impulso di mandare al diavolo il coloridatore al quale ha risposto con una pazienza degna di miglior causa.
Ormai la convivenza è compromessa. Sono volati gli stracci e ripristinare la tradizione di cordialità nel Pdl non sarà facile. Fini progettava la costituzione di gruppi autonomi in Parlamento e vi ha rinunciato per questioni di forza maggiore: non ha sèguito. Aveva pensato addirittura a mettere in piedi un nuovo partito.
Nulla da fare; i sondaggi sono scoraggianti. Se sbatte la porta, non ha avvenire, nessuna prospettiva. Gli tocca obbligatoriamente rimanere dov’è e subire lo smacco sperando che muti il vento a suo favore, ed è improbabile. Finché non si sarà stancato di urlare nel deserto, starà nel Pdl e ogni tanto farà quello che ha fatto negli ultimi tempi: disturbare il manovratore profittando della poltrona, quella di presidente della Camera, gentilmente offertagli dal centrodestra che oggi egli contesta, perché ha idee diverse dalle sue e dei quattro gatti al suo fianco sfiancato.
È stata una battaglia inutile, dannosa, uno spreco di tempo. La gente è disgustata. La reputazione del Pdl non ne ha guadagnato. Si è avuta la conferma che la politica dei politicanti è una bottega che vende merce avariata nel proprio basso interesse e trascura quello del Paese. Tanto chiasso per niente. La montagna ha partorito un pidocchio.
Fini ce l’ha con la Lega. Non digerisce Bossi e neppure suo figlio Trota perché ha dichiarato in una intervista di non tifare per la Nazionale di calcio, di detestare la droga e di non aspirare ad esperienze omosessuali.
Fini si erge a paladino delle regioni povere del Mezzogiorno e respinge il federalismo fiscale temendone i decreti attuativi, cioè le modalità di applicazione. Insomma non digerisce nulla del Pdl. Pretende più democrazia, chiede di discutere, dibattere, confrontarsi. Le consuete lagnanze generiche e pretestuose ruminate mille volte e che tradiscono l’inconfessato obiettivo: istituire una sorta di diarchia ai vertici del Pdl impersonata - generosa concessione - da Berlusconi e da lui stesso, Fini.
Quando il premier gli fa presente che se lui intende fare politica attiva non gli resta che dimettersi dalla presidenza della Camera e dedicarsi al partito, il dissidente esprime il terrore di essere cacciato. L’attaccamento alla cadrega c’è. Fini tocca il fondo quando sfoga la propria antipatia verso il Giornale colpevole di aver colto sei mesi orsono le sue contraddizioni e di averle proposte quale argomento giornalistico di attualità. Si sa che vorrebbe la mia testa, ma in pubblico non osa dirlo apertamente. Lo fa capire. Il suo discorso è povero di contenuti politici e zeppo di risentimenti e malumori. Emerge una frustrazione dolorosa dovuta forse alla sua perdita di potere sugli uomini di An confluiti nel Pdl, i quali in maggioranza non riconoscono più Gianfranco come leader e lo hanno abbandonato, preferendogli il Cavaliere. Umanamente serve comprenderlo.
Fini era abituato ad essere il numero uno e ora è uno dei tanti nel partito: non può essere contento. Soprattutto non è contento di costatare che Berlusconi vince le elezioni anche senza di lui, o nonostante lui. È seccato di non essere stato designato successore del capo. Non è abbastanza contento del proprio ruolo istituzionale. Non è contento e amen. Gli uomini non sono mai contenti per oltre dieci minuti e cercano ogni giorno motivi di soddisfazione sia pure parziale. Fini non riesce a trovarne e se la prende con tutti anziché con se medesimo. Questa è una storia penosa, più psicoanalitica che politica. Il presidente della Camera è sofferente come si evince anche dal suo eloquio non fluido quanto in passato,
bensì nevrotico e saltabeccante al punto da risultare dispersivo, mai convincente. Siamo di fronte a un fenomeno nuovo, quello di una persona che non sa quello che vuole ma lo vuole tenacemente a costo di rompere col proprio passato, di litigare col presente e di pregiudicarsi il futuro. La Direzione del Pdl ha ascoltato le peripezie verbali di Fini con un certo imbarazzo appena dissimulato. Pochi e stenterelli gli applausi per lui. Decisamente fragorosi per Berlusconi che si è impegnato a reprimere l’impulso di mandare al diavolo il coloridatore al quale ha risposto con una pazienza degna di miglior causa.
Ormai la convivenza è compromessa. Sono volati gli stracci e ripristinare la tradizione di cordialità nel Pdl non sarà facile. Fini progettava la costituzione di gruppi autonomi in Parlamento e vi ha rinunciato per questioni di forza maggiore: non ha sèguito. Aveva pensato addirittura a mettere in piedi un nuovo partito.
Nulla da fare; i sondaggi sono scoraggianti. Se sbatte la porta, non ha avvenire, nessuna prospettiva. Gli tocca obbligatoriamente rimanere dov’è e subire lo smacco sperando che muti il vento a suo favore, ed è improbabile. Finché non si sarà stancato di urlare nel deserto, starà nel Pdl e ogni tanto farà quello che ha fatto negli ultimi tempi: disturbare il manovratore profittando della poltrona, quella di presidente della Camera, gentilmente offertagli dal centrodestra che oggi egli contesta, perché ha idee diverse dalle sue e dei quattro gatti al suo fianco sfiancato.
È stata una battaglia inutile, dannosa, uno spreco di tempo. La gente è disgustata. La reputazione del Pdl non ne ha guadagnato. Si è avuta la conferma che la politica dei politicanti è una bottega che vende merce avariata nel proprio basso interesse e trascura quello del Paese. Tanto chiasso per niente. La montagna ha partorito un pidocchio.
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