
Sono soli al mondo. Anche se ad attenderli hanno mogli, mariti, compagni di vita. Madri e padri spesso anziani, con addosso il peso e le fatiche della scelta, compiuta anni prima, di lasciare il proprio paese, la casa e gli affetti, per cercar fortuna in una terra lontana. Hanno fratelli e sorelle. Figli, spesso piccoli, dei quali a volte non ricordano il volto. Se l'hanno mai visto.
Sono i detenuti stranieri, circa il 30 per cento della popolazione reclusa nelle carceri italiane. Molti di loro hanno la famiglia nel proprio paese d'origine. Molti altri, invece, sono venuti in Italia da piccoli insieme ai genitori. O da grandi, con già una moglie o un marito al seguito, con i quali costruire un avvenire migliore. Altri ancora hanno incontrato l'amore proprio qui, nel nostro paese.
Ed è qui in Italia che ancora sognano di mettere radici e riprendere le fila della propria esistenza una volta fuori di galera. Nonostante la galera. Raramente però lo sguardo miope della burocrazia nostrana si poggia su queste storie di straordinaria fatica e ordinaria sfortuna.
Su queste vite che in molti casi hanno imboccato la strada dell'illegalità come l'ultima possibile, prima di dichiarare il fallimento di un progetto inseguito tra mille speranze e grandi aspettative. La burocrazia, infatti, considera queste donne e questi uomini come soli al mondo. Senza legami, né punti di riferimento. Senza nessuno con cui fare i colloqui settimanali: come se nei loro nomi e nella nostra difficoltà a pronunciarli fosse scritto un destino inesorabile di esilio e solitudine. Accade così che in occasione degli sfollamenti, continuamente praticati nel tentativo di gestire il numero di detenuti ben al sopra della capienza regolamentare e tollerabile degli istituti di pena, gli stranieri finiscano rapidamente in cima alla lista e spediti, come pacchi, dall'altra parte del paese. A centinaia di chilometri, a volte migliaia, dalla loro piccola rete sociale e affettiva, da tutto quel che - tanto o poco - sono riusciti a costruire in Italia. Soli, stavolta sul serio, senza che qualcuno possa andarli a trovare. Come è successo a Maria, giovane donna rumena trasferita a Messina dal carcere di Firenze, dove la sorella le faceva visita ogni volta che poteva per portarle notizie dei suoi due figli che vivono in Romania.
O a Mohammed, marocchino, mandato prima ad Augusta e poi nella casa di reclusione di Favignana, dove da tre mesi chiede solo di fare una telefonata a casa. A Milano. Dove viveva e dove ancora risiedono sua moglie e sua figlia di due anni, che non ha mai conosciuto. Ma la storia più emblematica l'abbiamo ascoltata - io e i colleghi di Radio Radicale durante un viaggio inchiesta attraverso le carceri d'Italia - in romanesco stretto da Rubie. Nato in Marocco trent'anni fa, Rubie vive a Roma dall'età di sei anni insieme a tutta la sua famiglia, con la quale gestiva un'attività commerciale prima di avere problemi con la legge. Quando si è reso necessario uno sfollamento a Rebibbia, è finito nell'elenco dei detenuti da trasferire. Avranno pensato, che con quel nome non poteva che essere solo al mondo.
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