
27/10/10
Il Fatto Quotidiano
“Ma quale vendetta? Simone non ce lo ridà più nessuno. Vogliamo solo giustizia. Vogliamo che non accada più a nessuno". Massimo La Penna non è abituato al clamore mediatico. Per un anno ha combattuto, assieme alla moglie e alla figlia Martina, una battaglia silenziosa. Si è affidato a un avvocato, Roberto Randazzo, perché i responsabili della morte di suo figlio Simone venissero individuati e pagassero per ciò che hanno, o meglio non hanno, fatto. Ma ancora oggi, undici mesi dopo, attende che l'inchiesta della Procura di Roma si chiuda.
SIMONE La Penna era un ragazzo di 32 anni. Già in passato aveva avuto qualche problema con la giustizia, qualche precedente. "Come tanti ragazzi faceva uso di droga, hashish e cocaina - racconta ilpadre -. Era stato già in cura al Sert, speravamo ne fosse uscito". E invece un'indagine della Procura di Viterbo, durata due anni, lo aveva visto nuovamente coinvolto. "A gennaio dello scorso anno era agli arresti domiciliari, in casa della sua compagna a Nepi, nel viterbese. Spesso io gli facevo la spesa o lo aiutavo economicamente per sostenere l'affitto".
Simone aveva anche una bimba, che oggi ha un anno e mezzo. "Gli hanno notificato un residuo di pena da scontare in carcere - spiega l'avvocato Randazzo - per un'altra vicenda". Per Simone si sono aperte le porte del penitenziario di Viterbo. E lì è cominciato il suo calvario. Perché, oltre alla droga, il ragazzo aveva un'altra bestia nera, l'anoressia nervosa. Ne aveva sofferto in passato, ha ricominciato a soffrirne una volta in cella. "Ce ne siamo accorti subito - prosegue Massimo - durante i colloqui gli dicevamo: 'Mangia, non ti preoccupare, risolviamo tutto'.
Lui ci rispondeva: 'Non vi preoccupate voi', ma continuava a dimagrire. Ha perso venti chili in due mesi". E a quel punto che è partita la prima istanza di scarcerazione: "Nel maggio 2009, una consulenza del professor Ferraguti - racconta il legale - ha evidenziato l'incompatibilità col sistema carcerario e messo in luce la possibilità che Simone fosse in pericolo di vita". Non è bastato, così come non sono bastate le altre cinque richieste (e le altre due consulenze) presentate dopo. "Vi era un'opinione diversa dell'equipe medica che lo gestiva in carcere e così il Tribunale di sorveglianza ha dato parere negativo", afferma ancora Randazzo.
"IL GIUDICE ha risposto che faceva i capricci", ci mette il carico il padre. All'inizio di novembre 2009, dopo l'ennesima istanza, è stata disposta una perizia da affidare a terzi e l'udienza è stata
aggiornata a dicembre. Troppo tempo per Simone, arrivato a pesare 49 chili. La mattina del 26 novembre due infermieri di Regina Coeli hanno tentato invano di rianimarlo. Arresto cardiocircolatorio, la sentenza di morte.
L'inchiesta sul decesso di Simone è affidata al pm Eugenio Albamonte, che ha iscritto nel registro degli indagati - con l'ipotesi di reato di omicidio colposo - sette tra medici e infermieri: Andrea Franceschini, Antonio Console, Francesco Paci, Domenico Salerno, Giuseppe Tiziano, Paolo Pirollo e Andrea Silvano. "Il sostituto ha fatto fare una consulenza complessa, con psicologi e internisti - conclude Randazzo - che escluderebbe alcune responsabilità. Quindi il numero degli indagati potrebbe cambiare. Abbiamo fornito alla Procura tutte le istanze e le relazioni dei consulenti, confidiamo nel lavoro del magistrato". Intanto, già nel dicembre scorso, i Radicali hanno presentato un'interrogazione parlamentare al ministro della Giustizia. L'associazione radicale "Il detenuto ignoto" è stata vicina alla famiglia La Penna, indicandole all'inizio il nome di un legale. La sorella di Simone, Martina, è in contatto con Ilaria Cucchi.
"Si É TRATTATO di un mostruoso accanimento giudiziario - conclude il padre - lo hanno trattato come se fosse un trafficante colombiano. Lo Stato pretende giustizia, e anche noi. Chi ha sbagliato deve pagare. Mio figlio ha già pagato con la vita".
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