
Il presidenzialismo. Una forma di governo di cui in passato il Senatur ha detto tutto il male possibile («Segnerebbe la fine di ogni libertà costituzionale», così si esprimeva un Bossi d’annata) è ora invece diventata - naturalmente in accoppiata al federalismo - il vessillo del Carroccio in tema di riforme istituzionali. Il modello francese è, nella testa di Bossi, la base ideale per l’accordo con Berlusconi, incontrato ieri sera ad Arcore nel primo vertice dopo le elezioni regionali, presente tutto lo stato maggiore leghista, dai ministri Maroni e Calderoli, al neo-presidente del Piemonte Cota, fino a Renzo Bossi, il figlio di Umberto. E, naturalmente, lo stesso Tremonti.
La road map bossiana è concepita per accontentare tutti: il premier ottiene la buonuscita che sogna da tempo, il Colle. La Lega, in sostanza, esprime il nuovo capo del governo, con l’obiettivo dichiarato di evitare che il nuovo Quirinale debordi. Certo, si tratta di lavorare bene alla suddivisione dei poteri, come suggerisce Bobo Maroni intervistato ieri dal Corriere della sera: «Se sono chiare le competenze di governo e regioni - sostiene il ministro dell’Interno - il modello francese assegna il giusto potere a chi viene eletto direttamente dal popolo». L’accento va posto sull’aggettivo usato da Maroni: giusto potere, che in questo caso è sinonimo di limitato. Anzi, doppiamente limitato: dal governo centrale e dal nuovo potere federale delle regioni. Da una parte un Cavaliere semipresidente, di nome e di fatto, e dall’altra un Tremonti premier a tutto tondo, che gestisce con ampi margini - e in piena sintonia col Carroccio - il potere esecutivo. Il suo eventuale approdo a Palazzo Chigi disegnerebbe uno scenario nel quale la Lega passerebbe definitivamente da forza decisiva ma marginale a perno del centrodestra post-berlusconiano.
«Giulio» premier non è un’idea di queste ore. Bossi ci lavora da tempo. Il legame tra il Senatur e il ministro, storicamente molto forte non è mai stato solido come adesso. I due hanno battuto palmo a palmo il nord durante l’ultima campagna elettorale. Reggio Emilia, Genova, Torino. Se sul palco comiziava Bossi, accanto c’era Tremonti. E viceversa. Insieme hanno riunito intorno a un tavolo i quattro aspiranti governatori del centrodestra al nord, poi tutti eletti tranne Biasiotti in Liguria, per far firmare loro un patto di ferro, il «quadrilatero del nord». Un modo per sottolineare che la constituency territoriale del leghismo tremontiano è sempre più forte. Persino Roberto Formigoni, l’altro grande potere forte della macroregione, ha dovuto prenderne atto. In questi giorni il presidente della Lombardia si sta muovendo su un doppio registro. Un po’ attacca, rivendicando la primogenitura della battaglia federalista, un po’ lancia segnali di fumo alla Lega, cercando una collocazione nella partita in corso. Oggi scenderà a Roma: ha in agenda un incontro con Berlusconi.
Ma ora l’iniziativa è in mano a Bossi. Sono altri i tempi in cui il piano del Senatur ha vacillato. Quando lo scorso novembre è intervenuto per difendere il ministro del Tesoro da un nuovo possibile licenziamento dal governo, come già era accaduto nel 2004, lo ha fatto non solo per salvare l’uomo sul quale la Lega ha investito per blindare la riforma federalista ma soprattutto per tenere «l’amico Giulio» in gioco per il dopo Berlusconi. D’altra parte, se in autunno il Cavaliere aveva maturato l’idea di esautorare Tremonti era proprio perché aveva individuato nel titolare del Tesoro uno degli esponenti del «complotto amico». Il premier non aveva digerito, tra le varie cose, un convegno dell’Aspen Institute italiano, di cui Tremonti è presidente, dedicato alla costruzione delle «nuove leadership». Poi la situazione si è appianata. Il paese ha retto all’urto della crisi economica e Bossi ne ha dato tutto il merito a Tremonti: «è un genio», ha detto due giorni prima del voto. Le urne hanno restituito forza e stabilità al governo e rafforzato l’asse Bossi-Berlusconi. Ma, a dispetto delle apparenze, la Lega non vuol regalare nulla al Cavaliere, e tantomeno al Pdl.
Lo schema pensato da Bossi vorrebbe anzi presentarsi come una soluzione per far saltare il tappo del berlusconismo, che da tre lustri "comprime" la politica italiana. O almeno così si proverà a vendere l’operazione al Pd, dato che Maroni non mente quando spiega che il Carroccio considera il partito di Pier Luigi Bersani «un interlocutore indispensabile» e definisce «una sfida da vincere» l’approvazione del pacchetto riforme a maggioranza qualificata.
Va da sé che questa interpretazione al ribasso del semipresidenzialismo non è però la medesima che circola nel Pdl, dove i piani leghisti sono già noti alla cerchia stretta berlusconiana. E certo è difficile immaginare un Cavaliere eletto a suffragio diretto che si insedia al Quirinale per farsi commissariare, sebbene da un alleato di lungo corso come Bossi.
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