
Una Pasqua in famiglia, con le figlie, trascorsa a fare il nonno. Ma oggi si ricomincia: Silvio Berlusconi riprende in mano l’agenda politica, mollata nel fine settimana per riprendersi un po’ dalle fatiche della campagna elettorale, e stasera attende ad Arcore la pattuglia leghista. E’ la classica cena del lunedì - con Umberto Bossi, Roberto Calderoli, Aldo Brancher - posticipata di un giorno per via delle festività. Stavolta, però, non è solo un appuntamento di routine. Si tratta di mettere in cantiere il programma di tre anni con cui il presidente del Consiglio vuole portare a termine il suo mandato da qui al 2013. II che significa soprattutto riforme.
C’hanno provato a dire che il Carroccio, dopo il successo elettorale rimediato al Nord, sarebbe diventato un problema per il capo del governo. E invece la formula che guida solidamente il centrodestra è sempre la stessa: "B al quadrato", Berlusconi e Bossi. Non è un caso se, su riforme, giustizia, fisco e quant’altro, il Cavaliere sondi il Senatur ancora prima di convocare il suo partito: l’asse è questo. Pazienza per Gianfranco Fini che, all’indomani del 6 a 7, aveva chiesto un patto a tre con Silvio e Umberto, invocando un posto pure per lui alla plancia di comando. Non è andata proprio come desiderava il presidente della Camera. Berlusconi? Incontrerà il socio in seconda battuta. Forse mercoledì, forse no. Sicuramente domani si riunisce l’ufficio di presidenza del Popolo della Libertà per cominciare a parlare di riforme. Ci stanno lavorando i vertici dei gruppi parlamentari, in «pieno accordo con i finiani», giura Gaetano Quagliariello. La proposta del partitone azzurro? Si tratterà di «un testo non chiuso», ma aperto alle «indicazioni» del «resto della maggioranza e dell’opposizione», spiega il vice capogruppo del PdL Senato. Allo stato, però, non c’è ancora nulla di definito e, nel corso della riunione di domani, il vertice del PdL si limiterà ad approvare una relazione sui tempi e i modi delle riforme. Per il testo vero e proprio se ne riparlerà settimana l’altra.
Orientamenti? Due su tutti. Agli ex Forza Italia piace di più un premierato forte, sul modello anglosassone, che conferisca più poteri al presidente del Consiglio. L’altro, quella che garba ai finiani, è un semi presidenzialismo importato, con correttivi, dalla Francia. In entrambi i casi rimane aperta la questione della fiducia: se si arriva al Senato federale, come chiede la Lega, il rapporto fiduciario con l’esecutivo toccherebbe solo a Montecitorio e questa soluzione non piace a tutti, nel PdL. Ma sono questioni tecniche successive, qui siamo ancora un bel po’ lontani. L’opposizione? Il gesto di tendere la mano va fatto, Berlusconi l’ha promesso al Capo dello Stato Giorgio Napolitano. Ma il gioco, fa capire Fabrizio Cicchitto, lo conduce il partito di maggioranza relativa: «Per aprire un confronto serio sulle riforme istituzionali», dice il capogruppo azzurro alla Camera, «bisognerà tenere conto della linea che sta definendo il PdL» e che arriverà a «una posizione comune del centrodestra» in accordo con la Lega. Una volta fatto questo «è ovvio che va aperto un confronto con l’Udc e il Pd». Linea confermata anche da Maurizio Gasparri: «Noi andiamo avanti, forti della confermata fiducia degli italiani. Giustizia e fisco sono le nostre priorità», ricorda il presidente dei senatori del PdL, «non faremo imposizioni, ma non subiremo diktat».
«DETERMINATI. ANCHE SE...»
Ai suoi uomini, il presidente del Consiglio ha fatto capire di essere determinato a cambiare la Carta nelle parti relative alla forma del governo (presidenzialismo) e dello Stato (federalismo). Ma non è che intende impiccarsi al tema delle riforme costituzionali. Alla fine il Paese ha altre priorità e lui ne deve tenere conto. Il leader della maggioranza, se deve compilare un elenco di cose da fare, preferisce inserire provvedimenti che abbiano un impatto immediato sull’immaginario dell’elettorato, come giustizia e tasse. Nella top ten berlusconiana non trova spazio il rimpasto governativo. Anzi, Silvio non ne vuole proprio sentir parlare. Ecco perché si appresta a un rapido cambio alle Politiche agricole (Fuori Zaia, dentro Galan) e basta così. Bossi? Finirà per cedere il ministero: tra alleati c’è un accordo scritto e depositato dal notaio.
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