
Con aria scettica, Berlusconi ha gettato uno sguardo al dispaccio di agenzia con le condizioni di Bersani per riforme condivise. «Non mi sembra una porta in faccia», gli ha fatto notare soft il portavoce Bonaiuti, del resto che altro avrebbe potuto dire il segretario Pd, reduce da un weekend così poco esaltante? Ripartire dalla bozza Violante, appunto... Il Cavaliere ha scosso la testa, «non ci credo molto, comunque vedremo». Deve ragionarci su, anzi ci sta già pensando. Ma non ha deciso come procedere. La «road map» verso una Terza Repubblica berlusconiana è tutta da definire. Lascerà trascorrere Pasqua, ne parlerà con Bossi, dovrà regolarsi con Fini, forse si riuniranno in conclave loro tre insieme. Nel frattempo il premier tenderà l’orecchio alla corte dei consiglieri, particolarmente queruli specie quando le cose procedono al meglio. E nell’entourage siamo già ai «falchi contro colombe». Quelli che gli tirano la
giacca, «Silvio non ti fidare dei comunisti, detta la tua agenda e procedi a colpi di maggioranza». E gli altri che decantano le virtù del dialogo (concetto cui il premier non crede troppo) ma soprattutto fanno presente al Capo che così gradirebbe la Lega, per non dire di Fini. Ieri, ad esempio, nel Pdl ciascuno ha espresso la sua in un coro abbastanza sgraziato.
Bonaiuti non aveva ancora finito di gettare un ponte verso Bersani, che già Bondi lo imbottiva di tritolo, così pure Capezzone. Vista la piega, Cicchitto è corso a piantare un paio di paletti: primo, «da sinistra debbono scordarsi la logica dei veti» e, secondo, «basta con le demonizzazioni del premier», altrimenti nemmeno si incomincia la trattativa.
La verità, tuttavia, è che la maggioranza deve far pace con se stessa. Intendersi su dove parare. La giustizia, ad esempio: nei giorni più caldi dello scontro elettorale il Cavaliere aveva promesso di ripartire da lì, il ministro Alfano avrebbe varato una grande rivoluzione entro un mese tutt’al più. Eppure nulla risulta a quanti ne sarebbero direttamente coinvolti, capigruppo, vicecapigruppo, presidenti di commissione, tra di loro non circolano bozze o brogliacci.
Idem sul presidenzialismo. Falso che Fini sia contrario, tra l’altro (fanno notare i suoi) lo predica da una vita. Semmai, da grande appassionato della materia, vorrebbe capire meglio di che si tratta, perché lo schema americano non è identico a quello francese, e il premierato rappresenta un’altra soluzione ancora. Il presidente della Camera avrebbe qualche suggerimento in proposito ma, appunto, occorre sedersi intorno a un tavolo. C’è vasta concordia, viceversa, con riferimento al partito. Nel senso che, dopo l’esito delle Regionali, i «triumviri» escono dal mirino. Ieri Berlusconi ha voluto sapere com’è andata davvero, e da via dell’Umiltà gli hanno spedito una folla di grafici dove risulta (autore è Verdini) che il centrodestra amministra il 70,1 per cento della popolazione italiana mentre prima era il 40,2, che il Pdl è primo partito in 8 delle 13 regioni al voto, che il crollo segnalato da Bersani non ci sarebbe perché con le varie liste connesse verrebbe raggiunta quota 33,7 per cento, solo un paio di punti meno delle Europee...
Pare che il premier se ne sia stato appagato, caso Puglia a parte. Quanto alle richieste finiane di riunire gli organismi interni, ecco la novità: entro l’estate si riuniranno Ufficio di presidenza, Direzione e Consiglio nazionale. Quest’ultimo praticamente un congresso (ne fanno parte un migliaio di membri) chiamato a sancire le scelte strategiche del prossimo triennio nonché una tregua tra i cofondatori.
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