
Probabilmente il responsabile economico del Pd, Stefano Fassina, dà voce a umori diffusi quando sostiene che Mario Monti non ce la farà, e dunque sarebbe meglio votare in autunno. Il problema è se il governo fatica per la propria inadeguatezza, o anche perché le forze politiche che lo appoggiano sono bloccate, prigioniere delle loro contraddizioni. Sembra sempre più fondato il sospetto che esista un partito trasversale della rassegnazione, convinto di dover sfruttare il momento per imboccare la scorciatoia delle elezioni anticipate. Ha militanti sia nel centrosinistra che nel centrodestra, seppure minoritari. Gode di sponde entusiaste e interessate soprattutto all’opposizione. E tende a crescere in protagonismo grazie alla crisi della moneta unica europea, alle divisioni nei partiti e all’affanno dei ministri tecnici: sebbene una crisi rimanga inverosimile. Il particolare dovrebbe far meditare. Non per nulla ieri il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, ha precisato che il traguardo per lui resta la fine della legislatura, e cioè il 2013. I maligni tendono a spiegare la sua ostilità alle urne come un modo per assecondare le preoccupazioni di Giorgio Napolitano. Può darsi ci sia anche questo. Sarebbe comunque un atteggiamento responsabile, e teso a non inseguire ipotesi di vittoria costruite su dati friabili e destinate a riconsegnare un’Italia ingovernabile. L’idea, poi, di interrompere la legislatura con l’avallo europeo suona lunare. In una fase in cui l’euro è in bilico, mandare a casa l’unica coalizione che abbia credibilità internazionale sarebbe suicida. Ma il solo fatto che simili scenari vengano evocati dimostra quanto nervosismo e quanta frustrazione circolino soprattutto nel Pd e nel Pdl; e quanta poca fiducia ci sia nella possibilità di riformarsi seriamente di qui a otto, dieci mesi. Eppure, nella voglia di urne espressa da Fassina, come nei giorni scorsi e ancora ieri da altri esponenti del Pd e berlusconiani, non si vede nessuna strategia. Si indovina piuttosto il riflesso delle elezioni amministrative di maggio; la paura di essere morsi dalla protesta di movimenti in ascesa come quello «5 Stelle» del comico Beppe Grillo; e magari, in assenza di riforme, la tentazione di una Seconda Repubblica al tramonto di mimare la carica anti Ue del «grillismo». Il risultato paradossale sarebbe quello di accelerare la presa d’atto che non si farà una riforma elettorale; e dunque di tornare a votare con un sistema del quale tutti dicono ogni male possibile, e nel quale i parlamentari continuerebbero di fatto a essere «nominati» dai leader e non scelti dagli elettori. Ci si salverebbe la coscienza dando la colpa agli avversari per l’impossibilità di cambiare; e magari premiando con seggi sicuri chi si è dimostrato all’avanguardia nell’attaccare Monti. E pazienza se «dopo», con il panorama delle alleanze del 2008 devastato dagli ultimi tre anni di berlusconismo e dalla radicalizzazione della sinistra, governare sarebbe complicato forse più di adesso. Va aggiunto, però, che scaricare i problemi su palazzo Chigi sta diventando fisiologico anche grazie agli errori del governo. Cresce la delusione per il modo di agire di ministri che Monti fatica a controllare e arginare. L’ultimo contrasto sui licenziamenti nella pubblica amministrazione fra il titolare del Welfare, Elsa Fornero e quello della Funzione pubblica, Filippo Patroni Griffi, è un brutto segnale: anche perché tutt’altro che isolato. Dà il «via libera» alle bordate di chi scommette sul logoramento progressivo e inesorabile di una compagine governativa senza alternative ma considerata in balìa degli eventi. È come se, in miniatura, una parte dell’Italia coltivasse la stessa sfiducia sul futuro che a livello continentale minaccia di mettere in ginocchio la moneta unica europea. Si tratta di una deriva preoccupante, soprattutto perché instilla l’illusione del «tanto peggio tanto meglio». Ma non basta denunciarla: per batterla occorrono risultati.] P robabilmente il responsabile economico del Pd, Stefano Fassina, dà voce a umori diffusi quando sostiene che Mario Monti non ce la farà, e dunque sarebbe meglio votare in autunno. Il problema è se il governo fatica per la propria inadeguatezza, o anche perché le forze politiche che lo appoggiano sono bloccate, prigioniere delle loro contraddizioni. Sembra sempre più fondato il sospetto che esista un partito trasversale della rassegnazione, convinto di dover sfruttare il momento per imboccare la scorciatoia delle elezioni anticipate. Ha militanti sia nel centrosinistra che nel centrodestra, seppure minoritari. Gode di sponde entusiaste e interessate soprattutto all'opposizione. E tende a crescere in protagonismo grazie alla crisi della moneta unica europea, alle divisioni nei partiti e all'affanno dei ministri tecnici: sebbene una crisi rimanga inverosimile.
Il particolare dovrebbe far meditare. Non per nulla ieri il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, ha precisato che il traguardo per lui resta la fine della legislatura, e cioè il 2013. I maligni tendono a spiegare la sua ostilità alle urne come un modo per assecondare le preoccupazioni di Giorgio Napolitano. Può darsi ci sia anche questo. Sarebbe comunque un atteggiamento responsabile, e teso a non inseguire ipotesi di vittoria costruite su dati friabili e destinate a riconsegnare un'Italia ingovernabile. L'idea, poi, di interrompere la legislatura con l'avallo europeo suona lunare. In una fase in cui l'euro è in bilico, mandare a casa l'unica coalizione che abbia credibilità internazionale sarebbe suicida.
Ma il solo fatto che simili scenari vengano evocati dimostra quanto nervosismo e quanta frustrazione circolino soprattutto nel Pd e nel Pdl; e quanta poca fiducia ci sia nella possibilità di riformarsi seriamente di qui a otto, dieci mesi. Eppure, nella voglia di urne espressa da Fassina, come nei giorni scorsi e ancora ieri da altri esponenti del Pd e berlusconiani, non si vede nessuna strategia. Si indovina piuttosto il riflesso delle elezioni amministrative di maggio; la paura di essere morsi dalla protesta di movimenti in ascesa come quello «5 Stelle» del comico Beppe Grillo; e magari, in assenza di riforme, la tentazione di una Seconda Repubblica al tramonto di mimare la carica anti Ue del «grillismo».
Il risultato paradossale sarebbe quello di accelerare la presa d'atto che non si farà una riforma elettorale; e dunque di tornare a votare con un sistema del quale tutti dicono ogni male possibile, e nel quale i parlamentari continuerebbero di fatto a essere «nominati» dai leader e non scelti dagli elettori. Ci si salverebbe la coscienza dando la colpa agli avversari per l'impossibilità di cambiare; e magari premiando con seggi sicuri chi si è dimostrato all'avanguardia nell'attaccare Monti. E pazienza se «dopo», con il panorama delle alleanze del 2008 devastato dagli ultimi tre anni di berlusconismo e dalla radicalizzazione della sinistra, governare sarebbe complicato forse più di adesso. Va aggiunto, però, che scaricare i problemi su palazzo Chigi sta diventando fisiologico anche grazie agli errori del governo.
Cresce la delusione per il modo di agire di ministri che Monti fatica a controllare e arginare. L'ultimo contrasto sui licenziamenti nella pubblica amministrazione fra il titolare del Welfare, Elsa Fornero e quello della Funzione pubblica, Filippo Patroni Griffi, è un brutto segnale: anche perché tutt'altro che isolato. Dà il «via libera» alle bordate di chi scommette sul logoramento progressivo e inesorabile di una compagine governativa senza alternative ma considerata in balìa degli eventi. È come se, in miniatura, una parte dell'Italia coltivasse la stessa sfiducia sul futuro che a livello continentale minaccia di mettere in ginocchio la moneta unica europea. Si tratta di una deriva preoccupante, soprattutto perché instilla l'illusione del «tanto peggio tanto meglio». Ma non basta denunciarla: per batterla occorrono risultati.
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