
Questa legislatura si era consegnata al mondo sventolando una bandiera: semplificazione. Cinque soli partiti in Parlamento, quando il governo Prodi ne riuniva 11 attorno al proprio desco. Fuori le estreme, dalla Destra di Storace a Rifondazione comunista, ghigliottinate dalla soglia di sbarramento. Fusione in un unico cartello di An e Forza Italia (il Pdl), Ds e Margherita (il Pd). Un'idea di riforma costituzionale condivisa, per sfoltire i ranghi (mille parlamentari), per recidere i doppioni (due Camere gemelle). All'epoca venne persino inventato un ministro per la Semplificazione: Calderoli, buonanima.
Forse non dovremmo mai voltarci indietro, perché la vita è un treno che corre dritto sul binario. Ma sta di fatto che adesso la locomotiva attraversa un paesaggio di città fortificate, l'una contro l'altra. L'unità del Pdl è come un ricordo dell'infanzia: bene che vada, gli subentrerà una federazione con due gambe, o magari con tre. Nel Pd Renzi e Bersani non incarnano una sfida tra diverse esecuzioni d'uno stesso spartito; no, suonano musiche opposte, il rock and roll e il liscio romagnolo. C'è insomma lo spartito, non c'è più il partito. O meglio ce ne sono troppi, dalla sinistra di Vendola al movimento di Grillo, che ovviamente non ha nessuna voglia di mescolare le sue truppe con quelle guidate da Di Pietro. E senza contare i nuovi commensali: Italia futura, la lista dei sindaci, quella di Giannino.
In questo specchio infranto si riflettono anche le nostre istituzioni. L'officina del diritto è affollata di meccanici: dettano norme gli atenei, le autorità portuali, i consigli di quartiere. L'attività amministrativa è a sua volta frantumata, sicché - per dirne una - sui nostri 13.503 acquedotti vegliano 5.513 enti. Il controllo del territorio viene affidato a 6 forze di polizia nazionali e a 2 locali. Ma i custodi sono ormai un esercito, anche se per lo più sparano a salve: al capezzale di mamma tv, per esempio, sgomitano la Vigilanza, l'Autorità per le comunicazioni, il ministero, l'Antitrust. Un tempo avrebbe potuto metterci ordine la legge, ma anche la legge è diventata un condominio dove s'accalcano 2 Camere, 20 Consigli regionali e 2 provinciali, Trento e Bolzano. Insomma, siamo passati dalla separazione alla disgregazione dei poteri. E giocoforza questi poteri disgregati trascorrono i loro giorni a litigare sulle rispettive competenze. In questo momento davanti alla Consulta pendono 6 conflitti tra poteri dello Stato, 12 tra Stato e Regioni, 126 ricorsi sulla spettanza della potestà legislativa.
Potremmo interrogarci a lungo se questa diaspora sia il riflesso, o piuttosto la causa, delle fratture che solcano la società italiana. Dove armeggiano corporazioni e camarille, ordini e collegi, correnti giudiziarie e sindacali, disputandosi il terreno palmo a palmo. Anche in questo caso non c'è un popolo, come non c'è uno Stato. C'è viceversa una serie di tribù, e guai a te se ne rimani fuori: ci rimetteresti la carriera. Eppure è esattamente questa l'urgenza di cui dovrebbe farsi testimone la politica. C'è bisogno d'unità, non di ulteriori divisioni. C'è bisogno d'istituzioni unificanti, quando fin qui soccorre soltanto il Quirinale. Significa sbarazzarsi di tutti gli enti, portenti e accidenti che ci teniamo sul groppone. Ma significa altresì recuperare l'interesse nazionale quale limite alle leggi regionali, come ieri ha ribadito Galli della Loggia. E significa introdurre un sistema elettorale che scoraggi la frammentazione. Dopotutto la semplicità reca almeno una virtù: non ti complica la vita.
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