
Di un’acciaieria l’altoforno è il cuore, e la colata continua il termometro della sua vitalità. Cuore pulsante che non conosce soste, né vacanze né ferragosto né scioperi, perché spegnerlo vorrebbe dire uccidere l’organismo che esso stesso alimenta. Non che sia impossibile fermarlo e poi rimetterlo in funzione, ma è impresa lunga, complessa, talmente costosa da rendere di fatto impraticabile ciò che teoricamente e tecnicamente non lo sarebbe. Insomma, ora inquina e uccide ma non produrre più significa per l’Ilva di Taranto, il più grande impianto d’Europa, la fine: una volta chiuso non riaprirà, con buona pace dei suoi 11 mila dipendenti e della residua presenza materiale e simbolica dell’Italia tra i grandi Paesi industriali.
Non è possibile che giudici e magistrati - che tra sentenze, tribunali del riesame e interpretazioni del gip stanno riscrivendo la politica industriale - non conoscano questa verità elementare e incontestabile. Non è possibile che politici e sindacalisti non sapessero che facendo finta per anni di non vedere sarebbero incorsi in errori e contraddizioni dalle conseguenze nefaste.
Non è possibile che imprenditori seri ignorassero che guai antichi sarebbero prima o poi riemersi, e più gravi di prima. Eppure chi doveva intervenire non lo ha fatto e chi poi si è dato da fare sull’onda dell’emergenza ha finito per invadere spazi impropri scombinando le carte e provocando la paralisi. Com’è stato possibile? Mentre il suo incarico volge al termine, Vincenzo Buonocore, protagonista del romanzo verità di Ermanno Rea "La dismissione", l’operaio specializzato cui è affidato il compito di smontare pezzo a pezzo l’Ilva di Bagnoli per venderla ai cinesi, si rende conto che molte certezze tali non sono. Per esempio la grande fabbrica non ha imposto il progresso, anzi ha finito per farsi condizionare dalla società, dalla città, dal territorio fino a esserne stritolata, fatta a pezzi, divorata.
Se questo è successo, è perché la politica industriale, più in generale la politica, ha lasciato il campo a interessi di parte, favori, omertà: ignorata la crisi negli anni Sessanta, fallita la ristrutturazione alla fine dei Settanta, sottovalutato l’impatto ambientale e infine buttata via la fabbrica quando era invece il momento di sviluppo e investimenti su nuove basi.
Certo Taranto non è Bagnoli, ma la storia è simile. E poi le maratone europee sui destini dell’acciaio e le polemiche sugli aiuti di Stato ai grandi impianti italiani sono di trenta-quaranta anni fa; e far convivere sviluppo e salute pubblica non è certo esigenza che scopriamo solo adesso: la prima sentenza contro l’Ilva per la pioggia di polveri sulla città è di un pretore, 1982, anni e vecchia di vent’anni è la denuncia dell’inanità generale (da ricordare, una per tutte, una profetica intervista-choc di Marco Pannella ). E però anche gli accordi recenti tra la Regione Puglia - che pure dispone di fondi e di poteri e deleghe in materia - e i proprietari degli impianti sulle misure da adottare, già costate ai Riva milioni di euro, non bastano. Ci sono decenni da sanare.
Non deve dunque sorprendere se poi a surrogare la politica, sempre più incapace di governare problemi complessi o di rigenerarsi dal suo interno, sia la magistratura. L’Ilva non è il primo caso né sarà l’ultimo. Piccoli e grandi episodi. C’è voluto un pm là dove un partito non aveva gli anticorpi sufficienti per scoprire un tesoriere infedele, Lusi, e liberarsene. È stata la magistratura a muoversi sul terreno minato delle trattative tra Stato e mafia là dove il Parlamento non ha la forza di indagare. Ed è ancora un’inchiesta giudiziaria a informare il governo che uno dei suoi sottosegretari è accusato di aver truccato un concorso universitario...
A Taranto, di fronte all’assenza di decisioni forti, tra lavoro e salute giudici e procure hanno privilegiato quest’ultima sulla scorta di dati agghiaccianti, non avendo però gli strumenti né per tutelare l’una né per salvaguardare l’altro, ma solo quello di fermare tutto a colpi di ordinanza. Non c’è da gioire, c’è da preoccuparsi: è rimasta la sacrosanta voglia di denunciare mali antichi, ma pare che non ci sia più la capacità di curarli.
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