
Duole dirlo ma la ricreazione è finita. La campagna elettorale si è rivelata un’altra occasione perduta per migliorare il rapporto tra politica e società. La scaletta dei comizi è rimasta lontana mille miglia dall’agenda degli italiani. Si è inseguito il consenso a prescindere, mai si sono messi a confronto in maniera costruttiva problemi e soluzioni. Ai politologi l’ardua sentenza se sia ormai la regola delle democrazie post-moderne o se è stata l’ultima delle campagne condotte alla ricerca del consenso liquido.
Certo è che dopo aver disquisito se fossimo entrati in una crisi pari al ‘29, al momento di prospettare agli elettori le possibili vie d’uscita si è preferito buttare la palla in corner.
Duole sostenere che la festa è finita perché come conseguenza ci tocca vestire gli scomodi panni di Cassandra. La politica deve sapere che la crisi oggi ha il volto della «recessione umana» (copyright di Larry Summers): l’Italia si sta avvicinando ai 2 milioni di disoccupati strutturali e gli ultimi dati Istat sui consumi segnalano una forte contrazione persino degli acquisti di alimentari. Le imprese, quelle che hanno resistito (e comunque la previsione di 2 mila aziende a rischio nel solo Varesotto, fatta 9 mesi fa, si è già avverata!) se la passano male, «la ripresa statistica» non l’hanno ancora vista’e cresce di giorno in giorno l’area della concorrenza sleale.
Il sommerso di origine asiatica sta lievitando e appena Polizia e Guardia di finanza accentuano i controlli trovano montagne di merci contraffatte e innumerevoli laboratori-dormitorio.
Chiusi i seggi, spente le luci dei talk show post-elettorali, archiviate le immancabili risse della serie «urlo, ergo sum», bisognerà che la maggioranza metta in campo un’ipotesi di lavoro che vada oltre il giorno per giorno, che viva non del solo refrain sulle virtù del made in Italy. Se il governo non vuole chiamarle riforme, se per qualche motivo ha contratto una forma di idiosincrasia politico-lessicale, poco importa.
Chiamiamole «interventi», «terapie» oppure coniamo un neologismo (siamo dei campioni), ma facciamo in fretta perché quelle «cose» non si possono rinviare all’infinito. Ci sono tutti i segni che l’Italia possa entrare in una lunga fase di stagnazione, fatta di disoccupazione alta; bassi consumi e crescente difficoltà dell’industria. A pagare il conto, forse più di altri, è uno dei mondi che più si rispecchia nel centro-destra. La piccola impresa, il lavoro autonomo, i professionisti, quel mondo che non è stato avaro di consensi dal ‘94 ad oggi verso Silvio Berlusconi, e che oggi chiede una forte discontinuità. Si aspetta che il centro-destra liberi risorse dal giogo della spesa pubblica e pensa che il nodo delle pensioni vada affrontato.
E’ proprio incredibile e la maggioranza ha davanti a sé tre anni senza elezioni - un patto generazionale tra padri e figli che riequilibri le tutele e ripensi il sistema degli ammortizzatori sociali?
È così ingenuo credere che si possa - passo dopo passo, per carità avviare la riforma fiscale? Giustamente il governo vuole costruirla con un’ampia condivisione ma serve un timing stringente, altrimenti si finisce per contrapporre il meglio al bene.
Finora gli italiani hanno affrontato la crisi con grande senso di responsabilità, le aziende si sono caricate la croce e i lavoratori hanno dato prova di maturità. La società è rimasta coesa anche quando la politica appariva rissaiola e inconcludente. Ma niente è per sempre.
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