
«Se dovessi acclarare che la mia abitazione fosse stata pagata da altri senza saperne io il motivo e il tornaconto, i miei legali eserciteranno le azioni necessarie per l’annullamento del contratto». Claudio Scajola si professa estraneo alla vicenda giudiziaria che lo vede coinvolto nell’acquisto con fondi neri della sua casa romana con vista sul Colosseo ed usa anche questa argomentazione, che fa insorgere l’opposizione, nei dieci minuti di conferenza stampa in cui annuncia le sue dimissioni.
Dieci minuti di passione di fronte a giornalisti e telecamere, senza sottoporsi al fuoco di fila delle domande, per uscire di scena dichiarandosi «vittima di una campagna mediatica senza precedenti. Non sono indagato, ma una cosa l’ho capita: un ministro non può sospettare di abitare in una casa pagata da altri. Sto vivendo da dieci giorni una situazione di grande sofferenza e per difendermi non posso continuare a fare il ministro».
Le sue dimissioni vengono accettate dal premier dopo un breve colloquio che si conclude con una stretta di mano e un comunicato in cui Berlusconi dà atto a Scajola, «un ministro molto capace», di aver preso «una decisione sofferta e dolorosa, che conferma la sua sensibilità istituzionale e il suo alto senso dello Stato, per poter dimostrare la sua totale estraneità ai fatti e fare chiarezza su quanto gli viene attribuito». Ma l’imbarazzo nell’esecutivo è palpabile come dimostrano i «no comment» di figure di primo piano come Tremonti, Calderoli, Letta. Anche il Capo dello Stato, dopo aver ricevuto una telefonata di Scajola che gli preannuncia le motivazioni delle sue dimissioni, spiegate in dettaglio in una lettera recapitata al Quirinale, saluta con un «arrivederci» i giornalisti che gli chiedono di esprimersi sulla vicenda.
Intanto in Parlamento prende subito corpo il totoministri, con un vortice di ipotesi che arriva fino in Spagna dove è in missione il neoministro Galan, che sente l’obbligo di tirarsi fuori da ogni ipotesi di nuovo incarico al posto di Scajola, mentre a Montecitorio c’è la classica atmosfera che precede ogni rimpasto e si materializzano le mire leghiste sul dicastero di via Veneto.
Ma la tensione interna alla maggioranza non si ferma qui: i finiani, pur apprezzando la decisione di Scajola, chiedono una corsia preferenziale per il ddl anti-corruzione, per dare al Paese il segnale che il centrodestra non avalla i comportamenti scorretti. Richiesta però bocciata dal direttivo del gruppo Pdl della Camera riunito per la prima volta senza Bocchino. E anche se da tutto il centrodestra piovono attestati di stima e solidarietà al ministro, non manca qualche critica, come quella del ministro Rotondi, che legge nelle dimissioni «una concessione alla demagogia». Ma per il resto (da Alfano a Cicchitto, da Gelmini a Capezzone) tutti sono convinti che malgrado la campagna mediatica che lo ha costretto a farsi da parte, il ministro alla fine saprà dimostrare la sua correttezza.
Le opposizioni invece sparano a zero. «Ne abbiamo viste tante e può darsi che siamo davanti a benefattori sconosciuti», ironizza Bersani. «Nessuno è scemo - attacca Di Pietro - e l’idea che uno ha consegnato soldi senza che il ministro ne sapesse qualcosa cozza con il buon senso». E per una volta, l’Udc è in sintonia con l’Idv: «Siamo garantisti - dice Enzo Carra - ma non scemi. La situazione era insostenibile. Il ministro se n’è reso conto e ha fatto bene a dimettersi».
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