
L’aborto farmacologico è più o meno pericoloso di quello chirurgico? Questa domanda ha accompagnato la prima fase del dibattito sull’Ru486, quando si doveva decidere se autorizzare o meno l’uso della pillola abortiva in Italia. E continua ad aleggiare ora che è iniziata la distribuzione e in Puglia è stata avviata la prima interruzione di gravidanza per via farmacologica. Il confronto, si è spostato sulle modalità: ricovero o day hospital. Per evitare grane, il Policlinico di Bari ha deciso di ricoverare per tre giorni la prima paziente, una ragazza di 25 anni. Ma si può ragionevolmente sostenere che il profilo di rischio dell’aborto farmacologico sia tale da richiedere sempre il ricovero? La salute delle donne che abortiscono sarà più tutelata in Veneto, dove è previsto, che in Emilia Romagna, dove basta il day hospital a meno che non sia la paziente a chiederlo?
A seconda di chi si interroga si ricevono risposte diverse. Il Consiglio superiore di sanità sostiene che i dati scientifici non sono conclusivi, anche se con una capriola logica chiede il ricovero. Il sottosegretario alla salute Eugenia Roccella e l’Avvenire si spingono oltre, appesantendo le statistiche ufficiali dei decessi con i resoconti aneddotici. Ma se adottassimo lo stesso approccio per tutte le medicine finiremmo per chiudere le farmacie e imporre il ricovero anche a chi prende un antidolorifico (pare che i cosiddetti Fans detengano il record delle ospedalizzazioni per eventi avversi). Giuseppe Benagiano, che ha preceduto Enrico Garaci alla guida dell’Istituto superiore di sanità, ha provato ad attingere anche alle fonti non ufficiali per compilare un database internazionale dei decessi ma al telefono con il Riformista racconta di essersi arreso, perché si tratta di una missione impossibile. L’unica strada percorribile e seria, in definitiva, è fare riferimento alla letteratura medica. Anche se questa può essere tirata di qua o di là a seconda delle inclinazioni etico-politiche di chi la consulta. C’è, ad esempio, chi pone l’accento sulle stime del 2005 del New England Journal of Medicine (Nejm), con una mortalità dieci volte superiore a quella dell’aborto chirurgico. E c’è chi risponde con Obstetrics e Gynecology del 2007, che non trova differenze statisticamente significative tra le due modalità, entrambe con meno di un decesso per 100.000 casi. Significa che la scienza non può aiutarci a sciogliere il nodo? Niente affatto, perché i dati non galleggiano nel vuoto. Silvio Viale, che ha sperimentato l’Ru486 a Torino, nota che è meno pericolosa sia del Viagra che della penicillina. In effetti secondo un vecchio articolo del Journal of the American Medical Association, le pillole blu hanno un tasso di mortalità di 1 su 20.000, superiore non solo alle pillole abortive ma anche ai farmaci per le disfunzioni erettili che necessitano di iniezione locale.
Eppure l’idea di scoraggiare l’uso del Viagra a vantaggio dell’invasivo Caverject non è mai venuta a nessuno (quanto al ricovero, è improponibile). Ancora più convincente il ragionamento che Achille Caputi, ex presidente della Società italiana di farmacologia, affida al Rifomista: quando si leggono le statistiche bisogna ricordarsi che i rischi tendono a diminuire man mano che aumenta l’esperienza. La gran parte della mortalità documentata per l’aborto farmacologico è legata ad alcuni decessi per sepsi scoperti verso la metà dello scorso decennio in America. Colpa di un batterio - Clostridium sordellii - che può essere presente nella flora vaginale e rappresenta un rischio anche negli aborti spontanei. Il dibattito sulla pericolosità dell’Ru486 si è scatenato allora, ma nel frattempo sono passati cinque anni, cos’è successo? Le autorità sanitarie internazionali hanno organizzato workshop e rafforzato il monitoraggio, ma le prove della pericolosità delle pillole abortive anziché aumentare vanno diminuendo. Come dire che il vecchio cluster americano pesa in modo sproporzionato sulle statistiche e difficilmente si ripeterà in futuro nei Paesi occidentali. In questa direzione punta, ad esempio, un’analisi pubblicata sul Nejm nel luglio del 2009 su ben 227.823 donne che hanno abortito per via farmacologica tra il 2005 e il 2008. La conclusione è che quando la somministrazione della seconda pillola è diventata orale anziché vaginale e si è ampliata la profilassi antibiotica, l’incidenza di infezioni si è ridotta del 93%.
La domanda all’ordine del giorno negli ambienti medici internazionali ora è questa: bisogna sempre accoppiare l’Ru486 con gli antibiotici? Se davvero il problema è tutelare le donne, allora dovremmo discutere di questo anche in Italia anziché imporre il ricovero in ospedale. Una volta garantiti i massimi standard di sicurezza, saranno le singole donne, opportunamente consigliate dai medici, a decidere quale strada seguire. Molte continueranno a preferire la via chirurgica, in genere meno dolorosa dal punto di vista fisico e anche psicologico, perché più rapida e accompagnata da anestesia. Altre preferiranno le pillole, magari per evitare che l’aborto chirurgico - soprattutto se praticato più volte - danneggi l’endotelio dell’utero compromettendo le successive gravidanze.
Resta il fatto che né la legge 194 né le linee guida nazionali o regionali allo studio potranno tenere chiuse in ospedale le donne che non lo vogliono. Non sappiamo quante decideranno di firmare il foglio per le dimissioni in contrasto con le indicazioni ufficiali. Forse saranno più numerose quelle che scarteranno l’opzione farmacologica in favore di quella chirurgica per tornare a casa prima. Ma non c’è bisogno di
essere maliziosi per sospettare che chi caldeggia il ricovero miri anche a questo.
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