
"Un giudice buono". Così lo definì Pannella, che notoriamente con i magistrati non è tenero, il giorno in cui la Camera commemorò Giovanni Falcone subito dopo la strage di Capaci. Nessuno si sorprese del giudizio positivo di un politico che si è sempre caratterizzato come intransigente difensore del garantismo e nemico di ogni scelta emergenziale.
Falcone si è trovato a incarnare una figura del tutto anomala rispetto al "sentire comune" della magistratura italiana. Inevitabile che il suo modo di operare creasse divisioni, polemiche. Ma la sua storia, non solo tragica ma soprattutto tutt’altro che banale, può essere letta oggi in modo problematico superando polemiche contingenti e inutilmente forzate. Viene ucciso quando, avendo contro praticamente tutta la magistratura associata, cerca di concretizzare una struttura nazionale antimafia profondamente innovativa. Il suo lavoro al ministero con Martelli non è tanto un rifugio dopo le innumerevoli traversie palermitane, quanto, un logico punto di caduta di una esperienza ini- ziata una decina di anni prima.
"Follow the money" fu il suo biglietto da visita nell’ufficio istruzione diretto da Rocco Chinnici. Le indagini patrimoniali come grimaldello per colpire la mafia nel suo punto vitale. Quello che aveva scritto Leonardo Sciascia nel Giorno della civetta vent’anni prima. I conti bancari da analizzare quanto e più delle perizie balistiche. Una rivoluzione copernicana da portare avanti però senza pericolose scorciatoie. Nacque allora una polemica proprio con Chinnici a proposito della possibilità di incriminare i cugini Salvo. Falcone si mostrò più cauto del capo dell’ufficio. Le prove non bastavano, secondo lui se si arrestava qualcuno bisognava essere sicuri di farlo condannare. L’uccisione di Chinnici e la pubblicazione sull’Espresso dei suoi diari, dove il consigliere istruttore esprimeva dubbi sul giovane magistrato di punta del suo ufficio, è il primo "veleno" col quale Falcone deve fare i conti. Ma tira dritto e resta del parere che le battaglie si combattono solo se si è sicuri di vincere. E così quando arriva il pentimento di Buscetta, il magistrato cresciuto al quartiere Kalsa probabilmente si rende conto che si tratta della continuazione della guerra di mafia con altri mezzi ma coglie l’occasione al volo. La battaglia si può vincere e si può raggiungere quello che lo Stato repubblicano non era riuscito ottenere in quarant’anni, l’ergastolo per i capi mafia. E si possono finalmente arrestare anche i cugini Salvo e perfino Vito Ciancimino. Ma c’è un prezzo: il denaro si può seguire fino a un certo punto, fino ai trafficanti, ai gabellieri, a qualche appaltatore. L’economia e la politica, il "gioco grosso" su cui avevano indagato Gaetano Costa e Cesare Terranova, rimettendoci la vita, devono restare fuori. Si possono colpire gli amici di Michele Greco, non quelli di Michele Sindona. Sono le condizioni di Buscetta, o almeno così si racconta ai giornalisti. La vulgata dell’antimafia glissa su un particolare significativo. A premere per approfondimenti di indagine sul mondo politico è la Procura mentre il "pool" dell’ufficio istruzione resta scettico e fedele al principio che si ingaggiano le battaglie che si possono vincere. Si crea una nuova frattura, profonda e velenosa, nel fronte antimafia che non può essere banalizzata, come farà demagogicamente Leoluca Orlando, nell’immagine delle "prove lasciate nei cassetti".
C’è stato un vuoto legislativo sul pentitismo e l’obbligatorietà dell’azione penale che ha costretto a una scelta necessariamente opaca pur di raggiungere un risultato. Stava, allora, alla libera stampa squadernare il problema. Non c’è riuscita, preferendo amplificare una stagione di veleni, in cui mestatori ed arrivisti hanno potuto sguazzare costruendo fortune politiche e professionali mentre alimentavano un conflitto che non era fra fiancheggiatori della mafia - che contribuirono a innescare conflitti - e anti mafiosi, ma principalmente all’interno del fronte antimafia. E Falcone pagò già allora un prezzo altissimo, senza concedersi qualche pur comprensibile ritorsione. Un "giudice buono", appunto. Anche empirico e flessibile, ma determinato, determinatissimo. Fino a costruire, abbandonando Palermo per Roma, uno strumento che poteva riprendere a "seguire il denaro" questa volta con possibilità di successo, nel momento in cui esplodeva tangentopoli. E allora sarebbe stato ancora possibile ricostruire i percorsi dei capitali mafiosi che hanno inquinato la nostra economia.
Furono la magistratura associata e il Csm con la regia politica della sinistra, con l’eccezione - va dato atto - di Giancarlo Caselli ma con il contributo perfino del suo amico Paolo Borsellino, a fare di tutto per fermare la sua nomina alla procura nazionale antimafia. E i mafiosi cominciarono ad ammassare esplosivo sotto l’autostrada.
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