
Le elezioni per la XIX Knesset scongelano la politica israeliana, rendono possibili più maggioranze, fanno emergere nuovi leader e aggiungono l’incognita di quale sarà il nuovo governo di Gerusalemme in un Medio Oriente già in profonda trasformazione.
Il premier uscente, Benjamin Netanyahu, cercava una forte affermazione del suo Likud e per raggiungerla aveva puntato sulla fusione con l’alleato «Israel Beyteinu» di Avigdor Lieberman ma l’alta affluenza alle urne ha generato tutt’altro scenario: deve accontentarsi di una maggioranza relativa di seggi assai modesta che lo obbliga a intraprendere difficili negoziati per raggiungere l’obiettivo dei 61 seggi che implicano la maggioranza.
Ad evidenziare tale difficoltà è il testa a testa notturno fra il blocco della destra e quello composto da sinistra e partiti arabi per decidere chi avrà, nel complesso, più seggi.
Se Netanyahu deve fare i conti con un risultato ben al di sotto delle attese, i tre nuovi leader della Knesset sono personaggi ancora poco noti in Occidente dei quali sentiremo parlare molto nelle prossime settimane, le cui posizioni innovano le tradizionali identità di destra, centro e sinistra in Israele. A destra, l’imprenditore dell’hi-tech e veterano delle truppe speciali Naftali Bennett, figlio di immigrati californiani, è divenuto con il suo «Ha Bayt Ha-Yehudì» interprete di una destra giovane, religiosa e anche laica favorevole all’estensione degli insediamenti in Giudea e Samaria, senza remore nel dirsi contraria alla soluzione del conflitto israelo-palestinese con la creazione dei due Stati. Al centro l’ex giornalista Tommy Lapid, che nell’esercito fece il meccanico, è stato capace con l’«Yair» di dare voce all’animo laico di una nazione che si oppone alla crescente influenza dei partiti ortodossi creando dal nulla il secondo partito. A sinistra Shelly Yachimovich, la giovane e combattiva leader dei laburisti, è stata protagonista di una campagna elettorale all’insegna della richiesta di un Welfare State più robusto in una nazione dove il pil cresce al ritmo del 2,5 per cento l’anno, lasciando in secondo piano il tradizionale impegno del partito a favore della pace con i palestinesi. Sulla carta tutto può avvenire: Netanyahu può guidare un governo delle destre oppure di coalizione così come può scivolare sulle delicate trattative che iniziano.
Di certo sarà obbligato a fare concessioni, prendendo atto che lo Stato Ebraico, a oltre 64 anni dalla fondazione, è una democrazia talmente vivace da continuare a rimettere in discussione e reinventare le proprie forze politiche. Ed è interessante notare il parallelo fra quanto avviene in Israele e nella maggioranza dei Paesi arabi che la circondano: tanto l’una che gli altri sono in profonda trasformazione, anche se in un caso grazie alle elezioni e negli altri passando per guerre civili e colpi di Stato.
La conseguenza per il presidente americano Barack Obama, intenzionato a sfruttare il secondo mandato per arrivare alla composizione del contenzioso israelo-palestinese, è di avere un’incognita in più sulla mappa del Medio Oriente. Per la Casa Bianca l’aspetto positivo di tale scenario è l’indebolimento di un premier come Netanyahu nel quale non nutre fiducia ma ce n’è anche uno negativo perché i governi israeliani retti da maggioranze precarie hanno più difficoltà a compiere sacrifici negoziali. Non si può tuttavia escludere che proprio lo scongelamento degli equilibri politici a Gerusalemme spinga Obama ad accelerare la visita in Israele. Per comprendere da vicino quali opportunità si aprono.
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