
La questione ambientale è soprattutto questione economica e finanziaria. O il climate change si affronta con strumenti adeguati oppure il riscaldamento dell'atmosfera non sarà mitigato, anzi peggiorerà nei prossimi decenni. Lo ha appena certificato il nuovo rapporto del Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc) presentato questa mattina a Berlino. Terzo degli studi 2014 dall'agenzia dell'Onu, quest'ultimo è centrato su quanto l'economia può fare per mitigare il riscaldamento dell'atmosfera. Se i gas serra sono aumentati più rapidamente tra il 2000 e il 2010 che in ciascuno dei tre decenni precedenti, allora - scrivono i ricercatori - il "business as usual" non può contribuire a ridurre la temperatura della Terra. Nel documento approvato nella Capitale tedesca, e letto in anteprima da pagina99, si mette a fuoco un punto: più si aspetta a ridurre la quantità di emissioni più i costi economici e non solo ambientali aumenteranno. Costi che diverranno insostenibili per le economie deboli, strangolate dall'impossibilità di intervenire sul piano economico. «Contenere le emissioni sotto i 50 miliardi di tonnellate di CO2 nel 2030 - spiega Massimo Tavoni del Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici - permetterebbe di spendere circa la metà per la riduzione dei gas serra nell'atmosfera. E per questa ragione devono essere messe a punto politiche economiche che tengano insieme efficienza ed equità».
Il quadro delineato dal rapporto Ipcc del 2014, al quale hanno preso parte più di 1.700, tra accademici, ricercatori ed esperti di tutto il mondo, è grave. La prima e la seconda parte sono relative alle basi scientifiche e agli impatti del cambiamento climatico. Individuano le cause principali nell’attività antropica, definendo le conseguenze “gravi, pervasive e irreversibili”. A specie in via di estinzione, stravolgimento degli ecosistemi, morte delle foreste e scioglimento dei ghiacci polari, si aggiungono siccità, desertificazione e depauperamento delle risorse naturali. La salute e le attività umane non possono che risentirne, cominciando dai paesi poveri del sud del mondo. Al punto che, «entro i prossimi 5-10 anni, scoppieranno conflitti per l'acqua e il cibo a causa dei cambiamenti climatici», come ha previsto il presidente della Banca Mondiale Jim Yong Kim.
Comincia a essere chiaro che a essere colpiti non sono soltanto animali e foreste, ma anche gli esseri umani e le loro attività. Le maggior parte delle quali, come in un paradosso, sono legate proprio alle emissioni di gas serra: la causa primaria del riscaldamento globale. E il primo grafico in capo alla parte del rapporto Ipcc uscita oggi ci mostra che l’inquinamento non si sta fermando, anzi. Tra il 2000 e il 2010, da 40 giga-tonnellate (40 miliardi) di gas serra all’anno siamo arrivati a 50. L’incremento annuale è così raddoppiato, passando dall'1% del 2000 al 2,2% nell’ultimo decennio. Una crescita costante e inarrestabile, che ha subito una piccola flessione soltanto negli anni iniziali della crisi economica globale.
La relazione del terzo gruppo di lavoro dell'Ipcc analizza quante emissioni produciamo globalmente e i possibili scenari del loro incremento, aggiungendo indicazioni sulle politiche volte a ridurle. Il dato più evidente è che nel giro di un ventennio, la situazione è totalmente cambiata all'insegna, come si è detto, di un costante aumento delle emissioni di gas serra. Come mostra il grafico qui sotto, contenuto all'interno della terza relazione Ipcc, il livello dei paesi a reddito medio-alto è pressocché raddoppiato, raggiungendo la quota dei paesi più ricchi, che negli anni hanno mantenuto un aumento costante ma molto più graduale. Parlando di sviluppo economico, infatti, è ormai chiaro che quei paesi non sono più “in via di sviluppo”: grazie ad una crescita vertiginosa, hanno raggiunto le potenze occidentali. Se negli anni ’90 non raggiungevano le 10 giga-tonnellate (10 miliardi) di gas serra emessi, tra il 2000 e il 2010 paesi come Cina, India, Brasile e Sud Africa hanno raggiunto il quantitativo di 18 giga-tonnellate. La stessa somma dei paesi occidentali, che nel corso di circa 10 anni sono arrivati ad emettere “solo” una giga-tonnellata in più, a fronte delle 10 che dobbiamo agli ex-“emergenti”. La Cina è oggi il paese che contribuisce di più all'emissione di gas serra nell'atmosfera, gli Usa, che da sempre erano i maggiori inquinatori sono passati in seconda posizione.
Insomma, non facciamo che peggiorare. Ma potremmo invertire la tendenza o, quantomeno, limitare i danni? La risposta è sì. A partire da quanto la scienza ormai ci conferma, il rapporto delinea la ferrea tempistica di cui tenere conto nell'ambito del contrasto al riscaldamento globale e pone due tappe fondamentali. La prima è il 2100: entro quell’anno la comunità internazionale ha fissato l’obiettivo di contenere l’aumento della temperatura media della Terra (14°C) entro i 2°C rispetto all’era preindustriale, soglia che gli scienziati riconoscono come l’unica in grado di evitare danni irreparabili per la nostra sopravvivenza sul pianeta. Come ribadito nelle molte conferenze mondiali sul clima (da Copenhagen a Doha, per citare le ultime), gli interventi devono essere tempestivi, perché nel 2030 il nostro tempo a disposizione per ridurre le emissioni di gas serra, CO2 in particolare, potrebbe scadere definitivamente. E' questa la seconda tappa, la più importante, in prospettiva della quale i paesi del mondo dovrebbero concentrare i propri sforzi.
Ridurre le emissioni richiede interventi relativi alla produzione e all’uso dell'energia, ai trasporti, all’edilizia, all’industria, al consumo di del suolo, agli insediamenti e ai consumi umani. Ecco allora che «per evitare interferenze pericolose con il sistema climatico – ha affermato Ottmar Edenhofer, uno dei coordinatori del terzo gruppo Ipcc – dobbiamo abbandonare il business-as-usual». In sostanza, gli investimenti per come sono stati fino ad oggi devono cambiare, perché ridurre le emissioni costa e costerà sempre di più. Mantenendo immutato quello che Edenhofer ha chiamato business-as-usual, secondo il rapporto oggi i costi per la riduzione dei gas serra crescono dall’1,6 al 3% ogni anno. Una mitigazione ambiziosa dei cambiamenti climatici ridurrebbe questa crescita di circa 0,06 punti percentuali all'anno. E, al di là degli aspetti puramente finanziari, ulteriori vantaggi deriverebbero da un impegno reale, quantificabili in una notevole diminuzione dei costi ecologici dell’inquinamento atmosferico, che finiscono per essere esternalizzati sulla natura e sulla società.
Analizzando circa 1200 scenari proposti dalla letteratura scientifica, la terza parte del rapporto Ipcc delinea un quadro ipotetico della direzione che dovrebbero prendere i flussi finanziari su scala globale tra il 2010 e il 2029, per ridurre efficacemente le emissioni e raggiungere l’imminente traguardo del 2030. Le cifre, indicate nel grafico sotto, corrispondono alla mediana delle stime avanzate dai vari modelli analizzati dal gruppo di studiosi. In base ad esse, gli investimenti annuali in tecnologie per la produzione di energia elettrica da combustibili fossili dovrebbero diminuire di circa 30 miliardi di dollari (-20% rispetto al 2010). Le risorse investite in fonti rinnovabili e nucleare dovrebbero invece aumentare di circa 147 miliardi di dollari (+100 % rispetto al 2010 ). Infine, le spese per l'ammodernamento delle attrezzature esistenti e per l'efficienza energetica nei trasporti, nell'edilizia, nell'industria crescerebbero di circa 336 miliardi di dollari. Le variazioni ipotizzate sono state calcolate sull’attuale investimento nel sistema energetico globale, pari a circa 1200 miliardi di dollari all’anno.
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