
Guarda lontano, il Cavaliere. Di qui a tre anni. Berlusconi già lo vede il prossimo, «grande» (come dice lui), appuntamento. Ne parla con tutti come dell'unico progetto politico su cui puntare una volta scantonate le regionali.
Il rendez-vous è quello delle politiche, in cui già medita un corposo blitz che ritiene vincente. Organizzato così, per come l'ha raccontato ai suoi: «Uniremo insieme il voto e il referendum confermativo sulla riforma del presidenzialismo e su quella della giustizia». Nella stessa scheda ecco i quesiti sull'elezione diretta del capo dello Stato o quantomeno del presidente del Consiglio, sulla separazione delle carriere dei giudici e dei pubblici ministeri, sulla divisione a metà del Csm, sull'obbligatorietà dell'azione penale, sulla responsabilità civile delle toghe, sulla Consulta. Riforme votate in Parlamento senza i due terzi. Con l'opposizione contro. Un mix ambizioso che persegue un duplice obiettivo: preparare per sè la poltrona su cui sedersi, vendicarsi definitivamente della
categoria che Berlusconi più odia al mondo, i magistrati. Per questo lavora il Cavaliere. Pronto a mettere da parte qualsiasi ipotesi di confronto con Pd e Udc (scontato il no dell'Idv), del tutto incurante degli appelli di Napolitano sulle riforme condivise, dimentico perfino degli ostacoli interni, da Fini a Bossi. Se il presidente della Camera ripete che «il presidenzialismo non è di questa legislatura», lui lo ignora. Se il leader del Carroccio mette sul tavolo, come «prioritario», il destino del federalismo, lui fa finta di non sentire. Quando parla con il Guardasigilli Alfano, il premier non gli concede più deroghe. Gli dice: «Basta attese, abbiamo aspettato anche troppo. Dopo le regionali voglio tutto in consiglio dei ministri, carriere e pm finalmente autonomi». E il Guardasigilli ha già nel cassetto i testi pronti. Lo stesso fa quando ragiona con i suoi colonnelli alla Camera e al Senato, Cicchitto, Quagliariello, Gasparri, sulla strategia presidenzialista.
Le due commissioni Affari costituzionali, guidate da due uomini di fiducia come Bruno e Vizzini, sono già in allerta. Dovranno lavorare solo su questo. L'agenda prevede che sulla giustizia si parta dal Senato, dove il presidente Berselli è considerato più favorevole rispetto alla Bongiomo che sta alla Camera. A Montecitorio partirà il dibattito sull'elezione diretta del capo dello Stato o del premier. Poi tratterà per dissipare i dubbi di Fini o di Bossi.
Stessa linea su intercettazioni e inappellabilità delle sentenze. Addirittura, nell'ultima versione torinese, un'impossibilità d'appello sia in secondo grado che in Cassazione. Una novità assoluta, nonostante la Consulta abbia già bocciato la famosa legge Pecorella (il pm che perde non può ricorrere in appello). Due "ossessioni" costanti per Berlusconi. E' dal 2001 che cerca di picconarle, per ora sconfitto. Ma in queste ore, anche su questo, ha posto il suo altolà. Incurante, pure stavolta, dei rapporti con il Colle e con la Consulta. Gli ordini del Cavaliere sugli ascolti sono stati dettagliati: «Si va avanti con il testo della Camera. Dobbiamo approvarlo tra qualche settimana». Quella versione ha già subito, a luglio 2009, uno stop del capo dello Stato che ha convocato il ministro della Giustizia per chiedergli di cambiare più di una norma. Ma nel clima arroventato dalle inchieste (Firenze, Trani, Roma), dalle telefonate che campeggiano sui giornali, l'unico imperio del premier è chiudere la partita, stoppare le intercettazioni a monte e a valle, renderle impossibili e comunque impubblicabili.
Perfino Alfano e Ghedini, il suo consigliere giuridico, lo invitano a evitare lo scontro con il Colle, ma il premier è stanco di attese. Non lo spaventa il contrasto con i finiani che delle intercettazioni hanno fatto un baluardo. Si è battuta, per limitare i danni, la Bongiorno alla Camera, e Granata, il vice dell'Antimafia, ancora ieri raccomandava che «il loro uso resti pieno per la mafia». Ma per Berlusconi l'esigenza è un'altra: fare presto e chiudere sul testo. Che tra l'ultima settimana di aprile e la prima di maggio potrebbe andare in aula al Senato e diventare legge. Ghedini ci tiene a precisare: «Comunque sappiano tutti bene che quella legge non si potrà applicare ai processi in corso perché c'è scritto in modo esplicito nella norma transitoria». Dunque non varrà per Firenze, per Trani, per Roma. Ma, supposto che il capo dello Stato la firmi e la Consulta non la smonti, si risolverà in un freno tremendo per le indagini. Proprio quello che vuole Berlusconi.
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