
La condizione critica del nostro sistema universitario richiederebbe un confronto a tutto campo sui suoi mali, non inquinato dalle polemiche pretestuose denunciate su queste colonne da Alessandro Figà Talamanca. Non c'è solo la debole funzione formativa di una élite colta e moderna. È ancora assente un'istruzione superiore adatta alle mansioni operaie e impiegatizie che stanno alla base dell'apparato produttivo. D'altro canto, al suo vertice occorrerebbe una schiera di specialisti capaci di tenere il passo - nel mondo globalizzato - con giovani che escono dal Mito o dalla London School.
Non possono farlo i nostri laureati "lunghi", se si pensa al la qualità media dell'insegnamento che ricevono. Meno che mai possono farlo i nostri dottorandi. Salvatore Rossi li ha definiti «animali domestici allevati per essere cooptati nelle baronie accademiche».
In un documentato pamphlet (La regina e il cavallo) l'economista, oggi vicedirettore di Bankitalia, spiegava che la società americana deve in qualche misura il suo dinamismo a un sistema universitario che funziona. E che funziona non perché è privato, come alcuni liberisti incalliti sostengono superficialmente. Università prestigiose, tra cui quella di Berkeley, sono di proprietà pubblica.
Il sistema funziona in quanto si fonda su regole di mercato: le università si disputano i docenti migliori con totale autonomia retributiva. L'equilibrio finanziario è assicurato da rette elevate e da un esteso meccanismo di donazioni, fiscalmente incentivato. Nel contempo, una quota cospicua delle risorse statali e federali finanzia direttamente gli studenti attraverso borse di studio e prestiti d'onore, anziché le università (da noi avviene il contrario).
Tutte cose note, si dirà. Meno noto, forse, è che nel Paese di Obama la spesa pubblica che va all'istruzione postsecondaria è, in rapporto al Pil, di gran lunga superiore a quella italiana. Nessuna sorpresa, comunque, se dalle graduate schools statunitensi viene buona parte della ricerca di eccellenza che si fa sul pianeta.
Questo modello esclude sia il valore legale del titolo di studio sia il ruolo unico pubblico dei professori universitari. Il primo presuppone e, insieme, determina il secondo. Il valore legale del titolo di studio, infatti, implica lo status di impiegati pubblici di coloro che devono rilasciarlo.
Come osserva ancora Rossi, essi difendono una realtà corporativa e fintamente egualitaria. E in una realtà in cui tutti i diplomi sono uguali per legge, tutti gli studenti parimenti liberi di parcheggiarsi nelle aule di ogni Ateneo, a tempo indeterminato e a prezzi politici (ma non per i più svantaggiati), il rischio che la mediocrità e l'ignoranza prevalgano è forte.
Per queste ragioni appartengo alla ristretta minoranza (fin qui) dei "sedicenti fautori" - come li definisce Figà Talamanca - dell'abolizione del valore legale del titolo di studio, fatta salva la necessità di una certificazione pubblica per l'esercizio di professioni legate alla salute e all'incolumità dei cittadini. .E per queste ragioni ho firmato l'appello dei radicali. Si tratta di una vecchia battaglia di Luigi Einaudi. A me, che non sono di cultura liberale, pare una di quelle riforme a costo zero coerenti con la migliore tradizione di una sinistra di governo. Dispiace dunque che due Consigli dei ministri, molti dei quali invece si richiamano proprio al pensiero dello statista piemontese, non siano stati in grado di decidere e abbiano preferito affidarsi a una consultazione di massa via internet. Una scelta innovativa ma insidiosa. Poiché il tema sì presta facilmente all'irruzione chiassosa di interessi organizzati, e quindi ad essere affrontato in modo disinvolto e banale, Vedremo.
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