
Lo potremmo chiamare il test dell'aerobica. Chissà se con la nuova legge sul lavoro cambierà qualcosa rispetto, ad esempio, al caso della dipendente pubblica torinese che, assente perchè malata cronica, è stata colta in flagrante ieri dalla Guardia di Finanza mentre insegnava aerobica, sprizzando salute e vitalità. In genere finiva con un nulla di fatto, un ritorno in ufficio e magari una multa simbolica. E c'è il rischio che finisca ancora così.
Con buona pace della decenza verso una intera cittadinanza che tira la cinghia e vede crollare i consumi ed esplodere la disoccupazione; del rispetto verso i colleghi costretti a lavorare anche per la danzatrice assenteista; del pudore visto che questa caricatura diventa l'idea che si fanno all'estero – e l'opinione delle cancellerie d'oltre confine conta, come è noto – del lavoro pubblico italiano.
Se c'è una grande falla nella legge sul lavoro è proprio quella della mancata parità di trattamento tra dipendenti privati e pubblici soprattutto nella parte che riguarda il licenziamento. Il tema è rimasto nel vago, coperto da scaramucce "tecniche" tra il ministro Elsa Fornero e il collega Patroni Griffi. Pubblici dipendenti e lavoratori privati restano mondi distinti, rimane l'apartheid che per decenni ha squilibrato queste due tipologie di rapporti di lavoro.
È solo la lacuna più vistosa di una legge che prometteva esiti epocali senza averli mantenuti poichè, giorno dopo giorno, si è dovuta piegare a esiti sempre più prosaici e compromissori imposti da una coalizione così tanto eterogenea da rappresentare interessi opposti e non componibili.
Il tabù dell'articolo 18 con le regole sulle sanzioni in caso di licenziamento illegittimo è stato scalfito, non abbattuto come in un primo tempo prometteva il Governo Monti, intenzionato a cambiare, prima ancora che le regole, soprattutto la cultura del lavoro, troppo distorta da visioni ideologizzate ferme a schemi da anni 70.
Un disegno che il ministro Fornero ha stilizzato nell'intervista di ieri al Wall Street Journal: «L'attitudine della gente deve cambiare, il lavoro non è un diritto, va guadagnato, anche con il sacrificio». Parole franche – fino all'abrasività – che i sindacati e i partiti massimalisti hanno già rimandato al mittente denunciando addirittura una violazione costituzionale: il futuro torna sempre a un passato che non passa perché in troppi ne hanno fatto un business. Il ministro Fornero non è stato politicamente corretto e probabilmente ha ancora peccato di ingenuità accademica: ma il diritto al lavoro non è in discussione, è in discussione il diritto al posto di lavoro se l'economia non è in grado di crearlo quel posto. E, soprattutto, è in discussione quella deriva che negli anni ha portato il giuslavorismo a confondere il diritto al lavoro costituzionalmente tutelato con il diritto del lavoro, reticolo di regole di rango ben diverso.
© 2012 Il Sole 24 Ore. Tutti i diritti riservati