
Quella mattina il sole ha deciso di affacciarsi nella settimana fredda e piovosa, complice un vento che spazza nuvole e sogni. Ti sveglia dalla notte breve, prova invano a scaldarti le ossa umide. Quando accendi la radio è un riflesso automatico; poi soffi nel filtro della moka per riempirlo di nuovo, annusando la giornata. E aspetti.
Il tempo di un caffè può essere una madeleine, in qualche rara mattina. Ritornano l’estate, i sorrisi per strada, la speranza di vincere una battaglia senza violenza: sulle spalle, per mesi, un bagaglio leggero, di storia e futuro, di tavoli e sedie. Hai corso, telefonato, risposto, convinto, scherzato, scritto: nelle notti calde, al posto delle immagini, ti tornavano in mente quei cento e mille nomi e date di nascita e indirizzi e “signora, ci lascia un contributo?” e “signore, ci mette una firma?”.
Sta salendo, il caffè: dalla radio ti ha avvertito un colpo di tosse, quasi l’avessi in casa quel giornalista che, con indolenza, annuncia l’annuncio e ti ricorda la macchinetta sul fuoco. Tu pensi che ce ne vorrà un altro, di caffè. Perché negli ultimi mesi, stavolta più rigidi e nervosi, hai lavorato tutte le ore disponibili in un giorno e fumato tutte le sigarette di tutti i pacchetti: un lavoro strano, senza salario, senza un datore, senza un ufficio. Per strada. Hai imparato dal tuo più caro amico, radicale come te, che anche se sei un colonnello o un tenente, il tuo posto è nella trincea dei diritti, umani e civili, insieme agli altri. Infatti nessuno te l’aveva chiesto, ma hai scritto letto ascoltato camminato esultato intervistato consolato affermato difeso curato confrontato consigliato lottato. Soprattutto scritto, soprattutto lottato. Ti hanno detto amico, compagno, bravo, se non ci fossi tu, militante, candidato, radicale: ed è questa, ripensi, l’unica dolcezza che scorgevi dietro l’impegno. La dolcezza delle parole. Delle loro, in cambio delle tue.
Quella mattina il sole ha deciso di sospendere persino la pioggia di insulti e il fuoco amico che ti hanno colpito la schiena e la cervicale, per giorni e giorni, mentre camminavi spavaldo nella certezza di una nuova battaglia giusta e quasi impossibile. Come tutte le battaglie giuste. Quasi impossibili. Non ti hanno mai piegato l’indifferenza, l’odio, l’anaffettività di quelli che dovrebbero amarti e ti chiudono le porte, invece. Perché sei radicale e pericoloso. Come tutti i radicali. Portatori di umanità. Quante volte l’hai detto proprio tu: realtà umana degli esseri umani, per questo si battono i pericolosi radicali. Pericoloso anche tu.
La radio la sposti nelle cuffie, il secondo caffè ti ha lavato vestito spinto fuori casa. Per strada, di nuovo, a piedi. Verso la battaglia, di nuovo, per strada. Sotto quel sole strano, che illumina ma non scalda davvero. Dentro al cuore, una sensazione strana, che ti rallenta ma non ti ferma davvero.
E’ di nuovo un colpo di tosse della radio, quell’annuncio annunciato, quel suono che non ha musica. A fermarti. Per la prima volta da mesi. All’orizzonte li vedi, i compagni amici militanti disarmati candidati bravi allegri puliti; diversi. Che non hanno capito quel colpo di pistola alla radio. Che proveranno per settimane a spiegarlo a litigarci a difenderlo. Come gli altri, sempre compagni tuoi: amici, combattenti, bravi, puliti, disarmati che forse ti accuseranno di un colpo incomprensibile che hanno esploso anche loro, ma non tu. Li saluti tutti con la mano, gli uni e gli altri, ugualmente compagni; diversi. In piedi, radicale, per strada, li saluti. Ci pensi ancora un attimo. Un altro attimo. Un altro attimo. Un altro attimo. Poi riprendi il cammino. Per tornare a casa.
Quella mattina il sole ha deciso di rimanere freddo spettatore del tuo riposo. Della tua nonviolenza. E della tua certezza che resterai radicale. E sarai di nuovo in strada.
Dal giorno dopo, quando ricomincerà a piovere.
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