
Negli ultimi giorni ha preso corpo una strana polemica che mira a coinvolgere il Quirinale in una vicenda confusa e dai confini incerti che va sotto il titolo «trattativa fra Stato e mafia».
È il trionfo dei dietrologi e di tutti quelli che, dentro o fuori il Parlamento, cercano di recuperare un po' della visibilità che Beppe Grillo ha rubato loro.
Il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, Vietti, ha definito «incomprensibile» la polemica. E in effetti occorre armarsi di molta pazienza per entrare nel merito della questione, che nasce dalle telefonate (intercettate e finite sui giornali) di Nicola Mancino a Loris D'Ambrosio, consigliere giuridico del presidente della Repubblica, in relazione a un'ipotesi di confronto davanti al magistrato fra lo stesso Mancino e l'ex ministro Martelli. Lo sfondo è il periodo '92-'93, vent'anni fa, quando fu sospeso l'articolo 41bis (carcere duro) ai boss mafiosi, una decisione in seguito collegata alla supposta «trattativa» fra autorità dello Stato e organizzazioni mafiose.
Siamo, come si vede, su un terreno insidioso, dove è facile prendere cantonate e disinformare (in buona o cattiva fede). Sta di fatto che la polemica si alimenta di una lettera di pochi mesi fa di Mancino al Quirinale, girata al procuratore generale della Cassazione, il quale a sua volta convoca una riunione riservata. Tema: favorire il coordinamento fra le procure che stanno indagando. Non sembra che ci sia materia per chiamare in causa il presidente della Repubblica; anzi, non sembra proprio che qualcuno abbia commesso abusi o invaso competenze altrui. A scorrere poi le trascrizioni delle telefonate (in Italia c'è sempre un nastro da ascoltare) non risultano notizie di reato. Eppure si è sollevato un gran polverone. S'intende che Antonio Di Pietro ha tutti i diritti di scatenare le offensive politiche che più ritiene utili. A maggior ragione adesso che il Pd lo tiene ai margini e il futuro appare incerto. Ma anche all'ex magistrato dovrebbe risultare chiaro che coinvolgere il capo dello Stato in una polemica furiosa quanto inconcludente rappresenta una ferita non irrilevante alle istituzioni. Proprio il caos in cui talvolta sembra sprofondare il nostro paese dovrebbe suggerire a tutti molta prudenza prima di insinuare dubbi sulla correttezza di Napolitano. Ma tant'è. Le elezioni si avvicinano, i "grillini" galoppano nei sondaggi e c'è chi, come Di Pietro, teme di restare intrappolato nella tagliola. Eppure di solito da queste situazioni si esce con la lucidità delle proposte, non certo aumentando il fumo quando non c'è l'arrosto.
Altro tema proposto dalla giornata è naturalmente l'arresto del senatore Lusi. Il Pdl non ha partecipato al voto e quindi ha lasciato il centrosinistra a sbrogliarsela da solo. Ovvio che l'esito non poteva essere diverso. Lusi avrebbe fatto meglio a dimettersi, invece di sperare fino all'ultimo nel voto segreto e in una raffica di "casi di coscienza". Resta il fatto che chi ha votato per l'arresto ha compiuto una scelta di convenienza. Il timore di un'opinione pubblica esasperata è la molla che spiega tutto. Ma Lusi, al di là dei reati che con ogni probabilità ha commesso (e senza risparmio), è solo l'anello di una catena più lunga. Il finanziamento ai partiti si presta a ogni sorta di malversazione ed è ormai una malapianta che andrebbe tagliata alle radici. Non si può pensare che, associando Lusi alle patrie galere, i suoi colleghi parlamentari riguadagnino per incanto la verginità politica. Gli italiani hanno le idee chiare al riguardo.
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