
Vorrei aggiungere un quinto brevissimo “no” ai quattro spediti a Matteo Renzi, via Europa, da Franco Monaco, mio ex capo parlamentare nel sottogruppo prodiano dell’Ulivo. I suoi quattro “no” vanno: 1) all’asse politicoculturale della proposta Renzi, quello di una sinistra ligia «agli schemi liberali e liberisti» (no, caro Franco, liberale è una cosa e liberista è un’altra, lo sai anche tu dai tempi dei nonni, quando Croce lo ricordava a Einaudi). 2) allo schema delle alleanze, che porta all’autosufficienza del Pd già sperimentata disastrosamente nel 2008.
3) al rischio scissione del Pd (che Renzi nega e invece Parisi vede addirittura come big bang) se il fiorentino vincesse le primarie. 4) all’espansione a destra del Pd, intesa come assimilazione delle “culture” del Pdl, mentre dev’essere convincimento di quell’elettorato a una nuova politica, non fassiniana (da Fassina), ma blairiana e obamiana. O, meglio, bersaniana.
Resta un quinto punto non toccato da Monaco e solo sfiorato da D’Alema nell’intervista di ieri a La Stampa, in cui reagisce alla cafonaggine della rottamazione (altra cosa è l’etica del rinnovamento), annunciando la sua candidatura alle prossime elezioni: a cui invece aveva inteso rinunciare. Quella di D’Alema è la risposta non dell’arroganza “anziana” alla virtù giovanile, ma della virtù degli anziani (educazione prima che esperienza) alla diseducazione generazionale.
Ma c’è altro da chiedersi: quali sono i confini entro cui la rottamazione opererebbe? È questo il quinto punto, e forse il primo. Riguarda solo il gruppo dirigente del Pd o riguarda l’intera classe dirigente: dal presidente del consiglio al presidente della Cassazione, dell’establishment industriale e sindacale al corpo docente universitario, dai centri pubblici di ricerca agli amministratori degli enti locali? Ma, anche a restringerne il campo alla sola politica di Palazzo, rinviando tutto il resto a dopo la conquista del partito e del governo, la rottamazione del gruppo dirigente del Pd cosa sortirebbe, se restasse, appunto, un fatto interno di partito (e sia pure con carica esemplare)?
Nessuno scrive o dice – a parte pseudo battute come la rottamazione già fatta da Berlusconi, che ha riempito il vecchio parlamento di fresche e gradevoli fanciulle (gnocche, traduceva lui) o di manichini Fininvest e Mediolanum; e a parte la constatazione ovvia che ogni generazione, dovendo farsi spazio, ha sempre strappato e strapperà spazi occupati dagli adulti – nessuno, dicevo, osserva che Renzi, quando parla di rottamare, finisce con l’additare all’opinione pubblica solo il Pd; anche perché a tutti gli altri il suo discorso non frega niente: né al venezuelano Ferrero né al camerata Storace, né al narratore Vendola né al pluriuso Casini, né alla galassia Pdl né all’autocrate Di Pietro, né al futurista Fini né ai mini socialisti di Nencini né ai mini ambientalisti di Bonelli, né ai sempregiovani radicali di Pannella né ai ferraristi di Montezemolo.
Come mai, mentre giornali telegiornali contenitori tv e radio pubbliche e private, fanno gli sciuscià di Renzi, questi non s’accorge che gli lasciano una scarpa non leccata: cioè non gli chiedono né gli ricordano che la sua predicazione rottamatoria può far annegare il Pd ma scivola come acqua sul problema strutturale di tutta la politica e di tutto l’establishment? Si dirà, e ne sono convinto anch’io, che ciò accade per antica cultura dell’Italia, distillata per 1500 anni da papi e conclavi ultraottantenni. Ma se il problema è strutturale, Renzi non sospetta di poter finire come quello che prima di lui predicò da Firenze, fra Girolamo Savanarola: che diceva anche lui sacrosante verità, ma le diceva provocando e non discutendo? Avrebbe fatto bene il Renzi, quand’era giovane di parrocchia, a leggere oltre i catechismi anche il Discorso del Metodo. Naturalmente, tra i fuochisti del rogo non ci saremmo noi, in quanto liberali (caro Monaco). Ma non so se la nostra cultura del «detesto le tue idee ma difendo il tuo diritto di esprimerle» sarebbe estintore sufficiente.
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