
Con l’autorità morale che gli deriva dall’aver reso più di un servizio alla Patria, Carlo Azeglio Ciampi ha buttato ieri il suo peso dalla parte di quegli oppositori del Governo Berlusconi che ritengono necessaria una nuova Resistenza. Il campo di battaglia è già molto affollato, ma è indubbio che l’avallo di Ciampi gli dà una copertura aerea di alto livello. Per intenderci: Di Pietro se lo porterà in piazza in effigie, il prossimo 5 dicembre.
L’analisi del male italiano che Ciampi ha consegnato a Repubblica è molto cupa e pessimista, perfino sorprendente per un uomo che in tutta la sua vita pubblica ha scommesso sul suo Paese e sulla sua vitalità democratica, diventando anzi una specie di araldo tricolore dell’Italia che ce la può fare (e che con Ciampi, prima nella terribile crisi del ’93 e poi nel settennato, ce l’ha effettivamente fatta).
Si vede che l’ombra dell’uomo nero Berlusconi si allunga ormai anche su quelle rare personalità che hanno fatto una fede del principio della neutralità delle istituzioni; e che la frattura tra le due Italie ha inghiottito ormai anche le terre di mezzo. Se la responsabilità di questa deriva la porta Berlusconi, come molti affermano, allora bisogna dire che è la sua colpa più grave, e quella che pagheremo più a lungo, anche quando lui non ci sarà più e bisognerà ricostruire uno spirito repubblicano su queste macerie.
C’è un punto però sul quale, a nostro sommesso parere, Ciampi sbaglia. Ed è quando afferma che l’attuale presidente disporrebbe di strumenti più efficaci di quelli che usa per «resistere», potendo fare ricorso al rifiuto di promulgare le leggi che non gli piacciono. Per uno scherzo del caso, infatti, nello stesso giornale su cui parlava Ciampi c’era ieri l’elenco delle 18 leggi ad personam approvate finora, ed è facile vedere che 13 di queste sono state promulgate durante la presidenza Ciampi: prima tra tutte il Lodo Schifani.
Se lo ricordiamo, non è certo per introdurre il sospetto che Ciampi da presidente sia stato troppo prudente o poco determinato nel contrastare «l’imbarbarimento» che oggi denuncia. Tutt’altro. Al Riformista è toccato anzi spesso, durante il suo settennato, difenderlo da accuse analoghe, di chi voleva che invece di attenersi alla Costituzione della quale aveva giurato di farsi garante, prendesse parte al conflitto politico e usasse a quel fine i suoi poteri.
Lo stesso Ciampi ricorda sconsolato nell’intervista quanto limitati e circoscritti siano quei poteri, quando si lamenta del fatto che il suo unico messaggio alle Camere, quello sul pluralismo dell’informazione, fu dalle Camere stesse sostanzialmente ignorato. E, d’altra parte, la legge Gasparri che Ciampi rinviò giustamente al Parlamento venne poi riapprovata e regolarmente promulgata, come da Costituzione. La quale, come sappiamo tutti, non regge una Repubblica presidenziale, nella quale il Capo dello Stato abbia poteri di veto sull’attività del Parlamento, ma piuttosto un sistema nel quale la sovranità appartiene al Parlamento.
C’è in realtà una sostanziale e salutare continuità nell’azione dei Capi dello Stato che si sono succeduti dall’inizio della Seconda Repubblica a oggi. Continuità che non a caso Napolitano ha più volte rivendicato, anche a difesa dei presidenti che l’hanno preceduto, quando qualcuno ha tentato surrettiziamente di metterli l’uno contro l’altro.
I poteri che la Costituzione e la prassi gli affidano, Napolitano li ha finora esercitati tutti e fino in fondo. Con in più una massiccia dose di moral suasion. E l’equilibrio dei poteri ha mostrato di funzionare, se la Consulta ha potuto bocciare ex post una legge, come il Lodo Alfano, che il Quirinale aveva promulgato. Sul processo breve, poi, legge di iniziativa parlamentare, sarebbe davvero impossibile che il Quirinale si esprimesse preventivamente, mentre si è ovviamente riservato di valutarla una volta approvata e nella forma in cui sarà approvata.
Nella sua intervista, Ciampi ha ricordato ieri a mo’ d’esempio la rivoluzione napoletana del 1799 (non 1797, come gli fa dire l’intervistatore). Ma quella rivoluzione dall’alto, condotta dall’aristocrazia e dalle classi colte partenopee in nome degli ideali dell’89 francese, finì nella tragedia, travolta dal popolo aizzato dai Borboni e dai Sanfedisti, al punto da essere da allora diventata l’emblema di un giacobinismo elitario e votato alla sconfitta. Sempre ammesso che tra i compiti del presidente della Repubblica ci sia anche promuovere una qualsiasi forma di rivoluzione.
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